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I lavoratori sono oggi garantiti da una serie di ammortizzatori sociali, operanti a seguito della cessazione del rapporto di lavoro. Tra essi specifica importanza è rivestita dalla Naspi, l’indennità di disoccupazione rivolta ai dipendenti del settore privato non agricolo.

Numerose volte su queste pagine abbiamo parlato di questa prestazione di supporto al reddito che, nelle intenzioni del legislatore, costituisce una misura ‘ponte’ tra il vecchio lavoro e quello nuovo. Di seguito la riconsidereremo, alla luce dell’ultimo Rapporto annuale Inps – il XXIII – pubblicato pochi giorni fa. Uno dei temi affrontati è, infatti, proprio la Naspi e l’impatto che tale indennità ha per le casse dello Stato.

Quanto costa la prestazione in oggetto all’erario? Ecco alcuni numeri interessanti che seguono l’evoluzione della Naspi nel corso degli anni.

Spesa per la Naspi più che triplicata: i numeri del XXIII Rapporto Inps

Per quanto riguarda l’importo dell’indennità di disoccupazione, il massimale – spiega l’Inps nel suo ultimo Rapporto – è pari a 1.470,99 euro per il 2023. Questo assicura un tasso di sostituzione elevato, mirato a fare da ‘paracadute’ e ad evitare shock eccessivi ai redditi e di conseguenza ai consumi del dipendente, che si trova a dover ricercare una nuova occupazione.

Andando a vedere il bilancio economico inclusivo di spese e entrate, indicato nell’indagine dell’istituto di previdenza, si può notare quella che è stata l’evoluzione della spesa per le tutele della disoccupazione non agricola, nel corso dell’ultimo ventennio (periodo 2003-2023).

Nel grafico pubblicato a pagina 132 del Rapporto troviamo infatti l’andamento delle entrate contributive e delle uscite (comprensive dell’onere per il riconoscimento della contribuzione figurativa) e il dato del saldo dell’indennità di disoccupazione non agricola.

Inps rimarca che, fino al 2008 la spesa per disoccupazione non agricola ha mostrato un trend di graduale ma lieve incremento, oscillando in media intorno ai 5 miliardi di euro annui. L’effettiva accelerazione si è avuta dal 2009, andando poi a superare i 15 miliardi nel 2014. Agevole notare quindi che, in meno di quindici anni, le uscite sono più che triplicate, andando a toccare quota 16 miliardi nel 2020. In quell’anno le uscite avevano in realtà registrato solo un moderato incremento rispetto all’anno anteriore, come conseguenza dei divieti di licenziamento varati per contrastare gli effetti della crisi pandemica.

Ma le uscite sono state costituite anche dalla copertura della contribuzione figurativa, perché i periodi di fruizione della Naspi beneficiano di questa tipologia di contribuzione. Infatti nel Rapporto annuale l’istituto sottolinea che tale prestazione accessoria ha un peso superiore al 50% del totale delle uscite.

Le due crisi del 2008 e del 2020

Il maggior ricorso ad ammortizzatori sociali come la Naspi, nei periodi di crisi economica e nella finalità di compensare le difficoltà del mercato del lavoro, giustifica l’andamento delineato da Inps nel suo Rapporto e, in particolare, l’incremento della spesa come conseguenza delle crisi susseguitesi a cominciare da quella del 2008 (crisi finanziaria internazionale e successiva crisi dei debiti sovrani).

Nel 2020, invece, l’incremento del costo della Naspi è causato, almeno parzialmente, dalle proroghe delle durate dei trattamenti di disoccupazione in essere e nel mancato rinnovo dei contratti a termine in scadenza.

L’impatto degli aggiornamenti normativi

Nell’indagine di Inps, oltre al ciclo economico emerge però anche un’altra ragione alla base dell’aumento di spesa. Infatti l’incremento di quest’ultima, nel corso del tempo, è dovuto altresì ai diversi interventi normativi che hanno esteso la platea, la durata e l’ammontare della prestazione, in modo da meglio calibrarla al carovita.

Basti pensare – ricorda l’istituto nel suo Rapporto – all’intervento operato dalla legge n. 247 del 2007 che, dal primo gennaio 2008, ha previsto l’incremento del periodo massimo indennizzabile del trattamento ordinario di disoccupazione non agricola (da 7 a 8 mesi per i lavoratori fino a 50 anni e da 10 a 12 mesi per quelli di età pari o maggiore di 50 anni), ma anche dell’ammontare (aumento della percentuale di commisurazione alla retribuzione dal 50% al 60% per i primi sei mesi, dal 40% al 50% per i due mesi successivi e dal 30% al 40% per i restanti periodi di beneficio).

Non solo. La stessa disposizione ha fissato che, a partire dal primo gennaio di quell’anno, l’adeguamento dei tetti per queste misure salisse dall’80% al 100% dell’indice Istat dei prezzi al consumo. Inoltre, nel 2012 e 2015, prima con l’Aspi e mini Aspi e poi con la Naspi, la misura di sostegno contro la perdita del salario è stata applicata ad una platea più estesa di dipendenti, con crescita di durata e ammontare.

Le entrate non bastano a coprire le uscite

Un dato di fondo che emerge dall’interessante analisi del Rapporto Inps è che, nell’ultimo ventennio, le entrate a sostegno dell’ammortizzatore sociale non sono mai state sufficienti a assicurare la copertura delle uscite. A partire dalla crisi del 2008 il rapporto entrate-uscite ha cominciato infatti a peggiorare in modo assai evidente, tanto che le uscite – in alcune annate come il 2012 o il 2020 – hanno avuto un ammontare più che triplicato rispetto alle entrate contributive.

Mentre, dal lato delle entrate, c’è una sostanziale uniformità di importi, che risentono anche in questo caso dell’andamento dei lavoratori occupati e quindi degli assicurati, ma anche dei licenziamenti, in particolar modo dal 2012. Non a caso, spiega l’Inps nel rapporto, le aliquote contributive di finanziamento del trattamento a carico del datore di lavoro, uguali al 1,61% sono restate invariate fino al 2012.  Mentre dal 2013, la riforma Fornero ha aggiunto al contributo ordinario due nuove fonti di finanziamento con funzione di responsabilizzare il datore di lavoro:

  • il ticket licenziamento;
  • il contributo addizionale.

Come ricorda Inps nell’annuale Rapporto:

Il primo è un contributo obbligatorio una tantum, a carico del datore di lavoro, pari al 41% del massimale mensile di Naspi per ogni dodici mesi di anzianità negli ultimi tre anni, da versare in tutte le ipotesi di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per cause diverse dalle dimissioni o dalla risoluzione consensuale. Il contributo addizionale, invece, pari all’1,40% della retribuzione imponibile, è dovuto in relazione ai rapporti di lavoro subordinato a tempo determinato (esclusi i lavoratori nella PA), e viene restituito al datore di lavoro in caso in cui il rapporto di lavoro venga trasformato a tempo indeterminato.

Inps rimarca anche che le entrate prodotte da queste tre distinte tipologie di contribuzione e dall’estensione degli aventi diritto non sono, tuttavia, sufficienti ad assicurare la copertura degli oneri scaturenti dal pagamento della Naspi. Concludendo, il grafico a pag. 132 infatti mostra in tutta evidenza uno squilibrio costante dal 2008, che viene però controbilanciato dal saldo positivo di altre assicurazioni all’interno della Gestione Prestazioni Temporanee dell’Inps.



 

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