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Extra-profitti: un concetto discutibile

Tassare gli extra-profitti è come grattare con le unghie sulla lavagna: non si può sentire. È il medioevo dell’economia e la barbarie del diritto, oltreché il peggior esempio di stato comunista e padrone. Già il concetto di «extra» mette i brividi. In un’economia di mercato, va bene un profitto ma non oltre un certo tetto? E chi lo stabilisce questo tetto? Il Governo, di volta in volta, sulla base del fabbisogno di spesa e sentiti i pareri autorevoli di commentatori e occupanti dei media a vario titolo ma anche senza titolo va bene? Un tuffo nel passato allo Stato Robin Hood, che prende dove trova e a seconda della bisogna.

Ma come osa pensare di razziare gli extra-profitti di chi crea ricchezza, quando ha davanti una prateria di extra-sprechi da eliminare? Quando sarebbe lecito prendere e quanto? Beh, non c’è una regola. Si prende ciò che serve per fare ciò che si deve. Perfetto. Preciso. Puntuale. Se il deficit deve stare sotto una percentuale, ma tu non vuoi negare una spesa o più frequentemente uno spreco, allora è giocoforza che li vai a prendere dove stanno. Poi sfottiamo l’onorevole Salis che teorizza gli espropri proletari, quando serve una casa. Facciamo un gioco: trova le differenze con gli extra-profitti.

Se il profitto eccessivo, oltre una certa soglia che certa non è ma vabbè, comporta un aumento di prelievo, in caso di profitti sotto una certa soglia sarebbe lecito aspettarsi una riduzione del prelievo? E quando invece il profitto venisse a mancare, sostituito da una perdita, che si farebbe? Adesso non c’è prelievo, ma nella visione Robin un’azienda sarebbe autorizzata a chiedere un contributo, anziché ripianare le perdite o portare i libri in tribunale? L’economia del bar sport.

Le conseguenze della tassa sugli investitori

Chi esattamente colpisce il prelievo aggiuntivo? Di chi sono le grandi banche, che fanno così antipatia? Non certo dei top manager che, extra o non extra, i loro stipendi milionari li portano a casa comunque. No, sono degli investitori che hanno comprato le azioni per partecipare agli utili e beneficiare dell’aumento di valore. Grandi investitori, fondi e altri, che di fronte a una mossa simile riflettono se continuare a tenere i loro soldi investiti nel Paese di Pappagone oppure portarli altrove. Ma anche piccoli investitori, che hanno messo in cassetta i risparmi, perdendo quando gira male e sorridendo adesso. Del resto, la moglie gliel’aveva detto di non fidarsi, che era meglio tenerli in banca o al massimo comprare dei Bot.

Tuttavia, il male maggiore di questa mossa da Unione Sovietica sarebbe proprio a quei cittadini che idealmente vorrebbe beneficiare. A una popolazione già di suo gonfia di diritti e sgonfia di doveri, refrattaria alla responsabilità e alla meritocrazia e adagiata su uno Stato-papà, equivarrebbe a dire: non ti sbattere, che tanto poi una soluzione la troviamo.

Queste scelte politiche tendono a disincentivare gli investimenti, creando una nuova incertezza nelle decisioni economiche. Un clima di sfiducia nei confronti delle politiche fiscali può generare una fuga di capitali, con possibili ripercussioni sulla liquidità e la crescita economica del paese. I piccole e medie imprese, che spesso si basano su investimenti esterni per crescere e innovare, potrebbero rimanere bloccate in un limbo di incertezza, incapaci di fare piani a lungo termine.

Inoltre, anche se l’intento della tassa è quello di ridistribuire ricchezze, il risultato potrebbe essere l’opposto: favorire una mobilità superiore di capitali a detrimento dell’economia locale. Quando gli investitori iniziano a percepire l’Italia come un ambiente ostile, le conseguenze potrebbero riflettersi negativamente sull’occupazione e sull’innovazione, due elementi essenziali per la crescita economica e il benessere sociale.

L’impatto sulla responsabilità economica

Il prelievo sugli extra-profitti rischia di diluire ulteriormente la cultura della responsabilità economica. Operare in un contesto in cui il profitto viene tassato in modo punitivo non solo scoraggia le iniziative imprenditoriali, ma crea anche un’atmosfera di dipendenza dalle decisioni governative. Se un imprenditore sa che i suoi guadagni saranno soggetti a prelievi straordinari, potrebbe essere tentato di ridurre al minimo gli impegni, limitando la propria esposizione al rischio e preferendo scelte più conservative.

In un’economia in cui i profitti sono già tassati in misura significativa, aggiungere un ulteriore onere fiscale può portare a una mentalità di “non rischio”. Questa prospettiva non solo penalizza coloro che tentano di investire e innovare, ma rinforza anche un ciclo vizioso di passività. Gli imprenditori iniziano a considerare il profitto non come un obiettivo da perseguire, ma come un potenziale bersaglio di prelievo. Questo approccio non è promettente per un’economia che aspira a crescita e sviluppo.

Inoltre, la responsabilità non dovrebbe essere vista solo come un dovere individuale, bensì come un interesse collettivo. Le aziende sane e responsabili sono quelle che contribuiscono a un tessuto economico solido e prospero. Eppure, le politiche fiscali che penalizzano i profitti rischiano di screditare il merito e l’innovazione, considerando la tassazione un estratto da sacrificare piuttosto che un incentivo al miglioramento.

È evidente che senza un ambiente favorevole all’intraprendenza, la responsabilità economica tende a scolorire. La rimozione delle motivazioni per il successo imprenditoriale e l’innovazione porta a una società sempre più dipendente dalle soluzioni governative, minando l’ethos dell’indipendenza economica individuale. Il rincorrere il sogno di un’economia prospere e meritocratica diventa così un’illusione lontana, nonostante le buone intenzioni che potrebbero guidare tali politiche di prelievo.

Il paradosso della spesa pubblica

Il continuo aumento della spesa pubblica rappresenta un paradosso in un contesto in cui la sostenibilità economica dovrebbe essere una priorità. La logica di tassare gli extra-profitti per finanziare la spesa pubblica non sembra tenere conto delle conseguenze a lungo termine di queste scelte. Mentre si cerca di coprire le falle del bilancio statale, si ignora il fatto che una pressione fiscale eccessiva può inibire la crescita e il dinamismo economico.

Si potrebbero elencare diversi settori in cui i fondi pubblici vengono utilizzati, ma è fondamentale chiedersi se questi investimenti siano davvero produttivi. Spesso, le politiche di spesa si traducono in progetti che non generano un ritorno economico sufficiente o, peggio, in sprechi di risorse. In un contesto di crisi, è opportuno interrogarsi su quale sia il reale valore dell’intervento pubblico e se le scelte fatte siano orientate al benessere dei cittadini o alla mera sopravvivenza del sistema.

In effetti, in questo scenario di spesa pubblica onerosa, si crea un circolo vizioso: più tasse si introducono per finanziare un settore pubblico sempre più vasto, meno incentivi rimangono per stimolare l’economia privata. La tassazione dei profitti delle aziende, in questo senso, appare come una misura palliativa che non affronta i problemi strutturali. Gli imprenditori possono sentirsi sempre più demotivati a investire e assumere, e di conseguenza, la crescita occupazionale rimane stagnante.

Inoltre, considerando l’inefficienza spesso insita nella spesa pubblica, c’è da chiedersi se si stia realmente raggiungendo l’obiettivo di sostenere i più vulnerabili della società. La cultura del “perdito” in termini di risorse spese senza rendimenti tangibili non fa altro che creare una percezione di uno Stato incapace di gestire la propria economia e, di riflesso, genera una crescente sfiducia tra i cittadini. La vera sfida risiede nell’ottimizzare l’utilizzo delle risorse pubbliche, riducendo il gap tra le entrate e le spese senza gravare sulle aziende e sugli individui che continuano a svolgere un ruolo cruciale nello sviluppo economico.

Riflessioni sul futuro dell’economia e del lavoro

Il futuro dell’economia italiana appare incerto in un contesto segnato da scelte politiche discutibili. L’approccio del governo nei confronti degli extra-profitti e la pressione fiscale che ne deriva possono avere conseguenze devastanti sul tessuto imprenditoriale e sul mercato del lavoro. Con una crescente sfiducia tra gli investitori e un’atmosfera di incertezza, l’attrattività del Paese come destinazione per investimenti esteri potrebbe ridursi ulteriormente. Il rischio è quello di assistere a un esodo di capitali e talenti, poiché le opportunità di crescita e innovazione cominciano a sembrare più promettenti altrove.

In un contesto in cui numerose aziende faticano a recuperare dai colpi inferti dalla crisi economica, tassare i profitti potrebbe apparire come un atto di disintegrità. Le aziende che investono nel miglioramento dei propri processi e nella creazione di nuovi posti di lavoro potrebbero decidere di abbassare la voce degli investimenti o addirittura di licenziare, colpendo direttamente i lavoratori. La sottostante impellenza di mantenere un certo livello di ricerca e sviluppo è compromessa da una struttura fiscale che premia l’inefficienza e scoraggia l’imprenditorialità.

Si potrebbe sostenere che un’economia sana debba incentivare il merito, la creatività e il progresso. Tuttavia, il protocollo attuale si focalizza su un prelievo che non gratifica il lavoro e il successo. Il risultato è un panorama di lavoro caratterizzato da incertezze e paura, con impatti diretti sull’occupazione e sulla qualità della vita dei cittadini. Lavoratori sempre più demotivati e aziende che guardano oltre confine per cercare un ambiente commerciale più favorevole disegnano uno scenario poco incoraggiante per le generazioni future.

In definitiva, per promuovere un’economia prospera, che sfidi le sfide della globalizzazione e della digitalizzazione, è necessario un ripensamento radicale delle politiche fiscali. La rinascita economica non può avvenire in un clima di tassazione punitiva; è necessaria una riorganizzazione che incentivi l’innovazione e lo sviluppo, favorendo la creazione di un ecosistema dove profitto e responsabilità possano coesistere in modo costruttivo. Solo così sarà possibile salvaguardare il futuro del lavoro e garantire all’Italia di rimanere competitiva nel panorama economico globale.

 

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