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Forse l’intelligenza artificiale sostituirà, o quasi, il lavoro umano ma per ora la vita di uomini e donne è normalmente suddivisa in tre stadi: formazione, lavoro e pensionamento. Durante la formazione si è inattivi per definizione: non si è al lavoro, né lo si cerca e la famiglia provvede ai bisogni. Nel periodo lavorativo si ottiene, come contropartita alla fatica, all’impegno e alle responsabilità, un reddito che serve ad acquisire indipendenza economica e a formare il risparmio necessario per avviare una famiglia, acquistare la casa, mantenere e far studiare i figli e risparmiare, sia per le cosiddette «giornate di pioggia» (periodi di magra o eventi negativi inattesi), sia per l’età anziana, quando cessano l’occupazione e il relativo reddito.

In quasi tutti i Paesi, la formazione del risparmio per l’età anziana non è però lasciata all’iniziativa individuale ma è regolata da leggi che impongono la partecipazione a un sistema previdenziale pubblico. Sarà perché lo stato non si fida della lungimiranza dei cittadini o ne teme la «malizia» («non risparmio perché confido che un qualche buon samaritano – magari un’amministrazione pubblica – provvederà a me quando sarò anziano») ma tant’è: a nessuno viene chiesto se vuole iscriversi all’Inps (o se libero professionista a una specifica cassa); semplicemente siamo tutti obbligati a farlo e a versare contributi previdenziali (nella misura non piccola del 33 per cento della retribuzione lorda, per i lavoratori dipendenti) dal momento in cui cominciamo a lavorare. Chi vuole può, in vario modo e varia misura, aggiungere alla pensione pubblica un fondo pensione o piani di risparmio individuali, fiscalmente agevolati. Questo primo punto mette in luce un principio fondamentale: la pensione è frutto del lavoro, ossia dipende dai risparmi (contributi sociali) accumulati durante la vita attiva, e non dalla «generosità» della classe politica.

Proprio perché ente pubblico, l’Inps non si comporta però come una compagnia d’assicurazione: non investe i contributi in attività finanziarie (azioni, obbligazioni, titoli di stato italiani o esteri) ma li spende subito per pagare le pensioni in essere. Non c’è accumulazione di riserve finanziarie, come, per l’appunto, farebbe un privato: i soldi entrano ed escono in parallelo dalle casse dell’Inps che sono pertanto sempre vuote (anzi, i contributi non sono mai sufficienti a pagare le pensioni e lo stato ci mette la differenza, finanziandola con tassazione o con debito).

Questo secondo punto illustra un aspetto fondamentale della previdenza pubblica (tecnicamente definito «finanziamento a ripartizione»): chi lavora (chiamiamoli «giovani») versa, chi è in pensione (chiamiamoli «anziani») incassa. Un principio che si fonda su un patto generazionale: i giovani di oggi sborsano contando sul fatto che in futuro ci saranno sufficienti contributi per finanziare le pensioni di cui essi beneficeranno da anziani; il che significa un numero adeguato di lavoratori con un reddito altrettanto adeguato a sostenere sé stessi e gli anziani del tempo.

La sostenibilità del patto (ossia la possibilità di continuare a pagare le pensioni anche alle future generazioni) si fonda su tre elementi: la demografia (quando gli anziani aumentano e i giovani diminuiscono, come accade in periodi di invecchiamento della popolazione, finanziare le pensioni diventa più difficile); l’economia (se l’occupazione è bassa, di scarsa qualità e basso reddito le pensioni non possono essere ricche); la politica, che stabilisce i requisiti per l’accesso al pensionamento (tipicamente età e anzianità contributiva, con agevolazioni per le attività usuranti e gravose) e la formula per calcolare la pensione, dati i contributi versati. Requisiti e formule non possono però essere definiti liberamente, e tanto meno in base a considerazioni di mero consenso elettorale, che dipende dai votanti di oggi e non da quelli di domani (giovani e generazioni future), i quali contano meno del due di picche agli occhi di politici spregiudicati.

Al contrario, i criteri devono essere compatibili con l’equilibrio finanziario del sistema che, come detto sopra, dipende dalla demografia e dalla crescita economica, due variabili di lungo periodo, sulle quali il debito – e le promesse previdenziali «eccessive» sono una forma di debito pubblico – agisce piuttosto negativamente, in una sorta di circolo vizioso. La formula contributiva garantisce l’equilibrio, con eccezioni doverose per sostenere persone e categorie particolarmente sfortunate, ma sempre basate su criteri di trasparenza ed equità, altrimenti si tratta di privilegi, spesso nascosti sotto etichette solidaristiche.

Requisiti e formule basati su slogan populisti non tengono conto delle proiezioni demografiche. Così è stato, negli ultimi anni, per «quota 100», poi corretta in 102 e 103, tutte derivanti dalla somma di età, soggetta a un minimo, e di anni di anzianità contributiva; così sarebbe con la nuova «quota 41» proposta dalla Lega, basata soltanto sull’anzianità contributiva e non anche sull’età ma con una pensione più bassa perché calcolata interamente con il meno generoso metodo contributivo. Tutte misure che hanno comportato un aumento della spesa pensionistica, distogliendo risorse da impieghi che avrebbero potuto essere dedicati alla scuola, alla sanità alla creazione di posti di lavoro.

Le proiezioni mostrano però mostrano un drastico aumento del numero di anziani (65 anni e più) rispetto alle persone in età lavorativa (20-64 anni, non tutte, ovviamente, occupate e con redditi da lavoro): si passerà da poco più di uno su tre (37 per cento) a più di uno su due già entro il 2050 (60 per cento), per salire ancora nei decenni successivi. È questo lo scenario che il Ministro Giorgetti aveva in mente quando ha sostenuto che «con questa demografia nessun sistema pensionistico è sostenibile». Vero, ma l’insostenibilità è tanto più certa quanto più stolte, invece che sagge e lungimiranti, sono le politiche adottate. E le politiche basate su slogan sono stolte per definizione.

 

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