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Quarantott’ore fa ha firmato le dimissioni dopo dieci anni alla guida dell’Emilia Romagna, chiudendo con un gradimento vicino al 70%: «Un privilegio, nonostante terremoto, pandemia e alluvione. Ma nessuno è indispensabile». Ora si appresta al grande salto in Europa (partirà per Strasburgo domani notte).

Stefano Bonaccini, il Pd alla fine voterà von der Leyen? O vede franchi tiratori nelle vostre file?

«Il nostro sostegno ci sarà, a meno di cambi di scenario drastici che ora non si vedono. Il motivo è semplice: da un lato destra e sovranisti restano fuori dalla maggioranza, che resta saldamente europeista nonostante le felpe e i proclami di Ecr e Patrioti che dicevano no all’euro e all’Ue e hanno fatto solo disastri, come dimostra la Brexit. Dall’altro, ci auguriamo che i colloqui portino a un allargamento ai Verdi, che andrebbe nella direzione che auspicavamo».

Eppure anche nel Pd le critiche a von der Leyen non sono mancate. Quali dovrebbero essere le nuove priorità?

«Innanzitutto un cambio dei trattati, togliendo il diritto di veto a singoli Paesi. Per fare dell’Ue un’unione non solo monetaria, ma anche politica, fiscale, sociale. E poi insistere sui pilastri della transizione ecologica e digitale. Un esempio concreto: il Green deal è necessario, ma non si può contrapporre ambiente e lavoro. E quindi occorre investire per la riconversione delle imprese, perché non possiamo permetterci di creare milioni di disoccupati che incolperebbero noi di queste scelte».

Il Pd ripete “mai coi conservatori”, ma FdI potrebbe sostenere l’Ursula bis. Un problema?

«Il problema, semmai, è loro. Dalle parole di Nicola Procaccini mi sembra che al massimo potranno astenersi. In ogni caso, quello che conta per noi è che i Conservatori non faranno parte della maggioranza».

Ursula l’ha chiamata due giorni fa. Le ha dato rassicurazioni?

«Non entro nei dettagli di una conversazione privata. Ma voglio sottolineare che ciò che ci siamo detti era pienamente condiviso con Elly Schlein: piaccia o no, il Pd non è mai stato tanto unito. Conosco von der Leyen da quando ho guidato per sei anni il Consiglio delle città e delle regioni d’Europa. Poi è venuta due volte in Romagna dopo l’alluvione. In quell’occasione, l’Unione europea ci ha assegnato 1,2 miliardi di fondi in più del Pnrr per far fronte ai danni. Soldi che il governo non ci ha ancora messo a disposizione».

Si fa il suo nome per molte cariche europee: capodelegazione, capo del gruppo socialista. Lascerà la presidenza del Pd?

«Ho ringraziato privatamente e pubblicamente Elly per avermi proposto un incarico molto importante in Ue. Ma preferisco restare presidente nazionale del Pd. È giusto che siano valorizzati anche gli altri: abbiamo 21 eletti competenti e capaci che hanno dato un contributo fondamentale alla lista. Il Pd in questa campagna elettorale è tornato tra la gente: nelle piazze, nei mercati, nei bar. È anche per questo che abbiamo avuto un ottimo risultato. E credo, così come la segretaria, di aver dato il mio contributo».

Referendum sull’Autonomia. Se mancherà il quorum, rischiate il boomerang?

«La preoccupazione del quorum deve sempre esserci. Ma il referendum sarà un’occasione per mobilitare il Paese. Anche governatori di centrodestra, da Occhiuto a Rocca, sono perplessi o contrari. E nel Paese questo fronte aumenterà. Un segnale? Il fatto che il Pd sia tornato il primo partito al Sud in queste Europee. Qualcosa vorrà dire: i cittadini hanno capito che l’Autonomia di Calderoli fa solo danni».

Eppure lei era favorevole, no?

«L’Autonomia che proponevamo noi, scritta con le parti sociali, era molto diversa. Chiedeva poche materie e nessuna risorsa in più. E prevedeva come primo passo l’individuazione dei Lep, i livelli delle prestazioni, così da riequilibrare le differenze. Quella di Calderoli, invece, è un bluff: non ci sono risorse. Spero si fermino: noi andremo avanti in ogni caso».

Emilia Romagna. Ci sarà un campo larghissimo a sostegno di De Pascale, anche coi centristi?

«Penso e mi auguro di sì. Intanto abbiamo già fatto un mezzo capolavoro: nel giorno stesso in cui mi sono dimesso, abbiamo indicato all’unanimità un amministratore che ha quasi 20 anni meno di me e di cui conosco le qualità umane e amministrative. Io ho governato con una coalizione che va da Renzi a Calenda a Bonelli e Fratoianni e non ci siamo mai divisi neanche mezza giornata. Non solo: negli ultimi cinque anni, i 5S hanno votato con noi molto spesso. Da qui si può e si deve ripartire».

L’Emilia come modello per il centrosinistra?

«Non do lezioni a nessuno. Ma abbiamo davanti due sfide cruciali: l’Umbria e l’Emilia. In entrambe possiamo sperimentare una coalizione che vada dai moderati ai 5S. Noi abbiamo indicato una strada: se il candidato è di qualità, se la coalizione è unita e larga, se non si guarda alle appartenenze, neanche di corrente, si può puntare al due su due».

Come tenere insieme Renzi, Calenda e Conte, con visioni distanti dalla giustizia all’Ucraina?

«Partendo da ciò che può unire. Siamo tutti per la difesa della sanità pubblica, per il salario minimo, tutti per il no a questa autonomia differenziata. Serve un progetto comune: ci sarà il tempo. Ma le indicazioni degli elettori sono chiare: non c’è più spazio per terze posizioni isolate. Si va verso un ritorno al bipolarismo, tra la destra e un nuovo centrosinistra. Un centrosinistra che ha bisogno anche delle forze moderate».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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