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A politiche pubbliche più omogenee, soprattutto in termini di investimenti pubblici, il Sud reagisce e si mette in moto. Ma può rivelarsi una corsa incerta, destinata a interrompersi o a perdere ritmo quando determinati fattori straordinari – a partire dalla spesa Pnrr e dalla coda di spesa dei fondi Ue 2014-2020 – usciranno di scena.

È il messaggio che si può ricavare dal Pil 2023, cresciuto al Sud più che al Centro-Nord. Un messaggio da scandagliare con attenzione, numero su numero, per scoprire quanto c’è di solido, duraturo, maturo nello sviluppo economico del Mezzogiorno, proprio mentre siamo all’alba dell’era autonomia differenziata. Il 13 luglio entra in vigore la legge Calderoli e capire che cosa ha realmente determinato il sorpasso del 2023 è un esercizio fondamentale per non illudersi che il nuovo corso delle competenze regionali va a innestarsi su un terreno che si è ormai rimesso in equilibrio.

Lo scenario post Covid

Sull’andamento post-pandemia le letture non sono del tutto univoche. Nell’ultima Relazione annuale, Banca d’Italia rileva che dal 2019 la crescita del Pil meridionale è stata inferiore alla media nazionale e a quella del Nord e il prodotto è ancora sotto di oltre 7 punti rispetto alla crisi del 2008-2009 mentre nelle regioni settentrionali è superiore già dal 2022. Il Pil pro capite resta di poco superiore al 55% di quello del resto del Paese, sui livelli quasi costanti dal 2016. La Svimez, dal canto suo, stima un 2023 più robusto tale da determinare un +3,7% sul 2019 rispetto al 3,5% nazionale e al +3,4% del Nord-Ovest (+5,1% invece il Nord-Est). Secondo questa analisi, allineata ai dati preliminari diffusi pochi giorni dopo dall’Istat, lo scorso anno ha avuto l’effetto di un detonatore (+1,3% il Pil reale rispetto al +0,9% nazionale e del Nord-Est, mentre il Nord-Ovest segna +1%).

Ma non è un caso che il Mezzogiorno superi la media nazionale per la prima volta dal 2015, che è a lungo rimasto un caso isolato. Oggi come allora, infatti, il dato è fortemente influenzato dalla corsa delle amministrazioni pubbliche a sfruttare l’ultimo anno utile della programmazione europea per spendere i fondi strutturali. All’epoca si trattava del ciclo 2007-2013 (valeva la regola “n+2” cioè certificazioni fino a due anni dal termine) mentre stavolta i pagamenti erano legati al periodo 2014-2020 per il quale vige invece la regola “n+3”. I pagamenti accumulati sono essenzialmente legati alle opere pubbliche, con effetto sulle costruzioni. E lo stesso discorso vale naturalmente per il potente motore del Pnrr, che nel 2023 si è finalmente acceso e su un buon numero di progetti ha rispettato la clausola del 40% a favore del Mezzogiorno. A conti fatti, alla maggior spesa in investimenti pubblici, tra Pnrr e fondi strutturali, la Svimez attribuisce un contributo dello 0,5%, in pratica il 40% della crescita complessiva al Sud.

Le costruzioni

Gli investimenti pubblici sono cresciuti al Sud del 16,8%, a fronte del 7,2% del Centro-Nord. Se guardiamo alle opere, tradotta in euro la spinta vale 4,3 miliardi (da 8,7 a 13 miliardi). È chiaro che in un contesto nel quale le costruzioni contribuiscono alla formazione del valore aggiunto in modo particolarmente significativo, più che al Centro-Nord, l’effetto è quello di un mini-tsunami economico. L’Istat segnala per le costruzioni una crescita del valore aggiunto del 4,6%, verosimilmente anche per gli ultimi mesi di accelerazione delle spese del superbonus in vista del décalage scattato nel 2024. Questa dinamica è stata accompagnata da andamenti positivi in particolare in quei servizi che hanno linee di attività collegate alle costruzioni, come quelli immobiliari, finanziari e professionali (+3,3%). Bene anche i servizi collegati all’istruzione e alla sanità. Mentre è sull’industria che analisi e narrazione della ripresa del Sud cambiano visibilmente registro.

 

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