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Le recenti vicende connesse alla morte del lavoratore di nazionalità indiana Satnam Singh – ricordate nell’articolo “ Sfruttamento lavorativo in agricoltura: sicurezza, contrasto e difficoltà” – hanno giustamente riportato l’attenzione anche mediatica sui tantissimi casi di sfruttamento della manodopera, di caporalato e sulle pessime condizioni di lavoro di molti lavoratori.

 

Per tornare sull’argomento e comprendere quanto stia facendo la giurisprudenza italiana di fronte al problema della presenza di attività criminali organizzate nel settore del lavoro, pubblichiamo un nuovo contributo dell’avvocato Rolando Dubini dal titolo “La Corte di Cassazione e la repressione penale del lavoro nero, del caporalato, della intermediazione illecita di manodopera e dello sfruttamento del lavoro: una sentenza esemplare”.

 

Nel contributo viene presentata la Sentenza n. 24577 del 21 giugno 2024 della Corte di Cassazione.

 

La Corte di Cassazione e la repressione penale del lavoro nero, del caporalato, della intermediazione illecita di manodopera e dello sfruttamento del lavoro: una sentenza esemplare

 

La Corte di Cassazione ha recentemente emesso una sentenza significativa in materia di associazione per delinquere, finalizzata all’intermediazione illecita e allo sfruttamento lavorativo. Il caso, che ha visto come imputato principale un datore di lavoro e caporale del settore edile, rappresenta un esempio paradigmatico di come la giurisprudenza italiana affronta e combatte la criminalità organizzata nel settore del lavoro.

 

 

Contesto e Processo

La paga era di soli 5 euro l’ora, e a chiunque avesse osato rivelarlo all’esterno sarebbe stato immediatamente licenziato. Tuttavia, un coraggioso operaio straniero, reclamando denaro arretrato, si rivolse alla CGIL di Firenze per denunciare questi abusi. Così, due anni fa, partì un’indagine della procura di Prato che ha condotto all’arresto di dieci persone, tutte finite in carcere, mentre un’undicesima rimane latitante all’estero.

 

Secondo il pm Lorenzo Gestri, i promotori dell’associazione a delinquere erano i proprietari di due imprese edili. Le imprese erano guidate una da due fratelli egiziani, di 40 e 38 anni, e l’altra da un imprenditore calabrese di 45 anni. I loro stretti collaboratori, incaricati principalmente della gestione, del trasporto e del controllo degli operai, erano tre cittadini magrebini di età compresa tra i 26 e i 43 anni. Dalle intercettazioni emerse chiaramente che il sistema di reclutamento si basava intenzionalmente sullo sfruttamento: “Trattati come schiavi e zerbini” dichiarò uno dei manovali.

 

In due anni di indagini, sono stati identificati circa sessanta operai sfruttati. Tra questi, quindici erano senza permesso di soggiorno e molti senza contratto; ad altri veniva chiesto di restituire parte di quanto percepito in busta paga per poter continuare a lavorare.

 

Tra gli arrestati vi erano otto stranieri, per lo più egiziani, accusati di essere caporali, reclutatori di forza lavoro per le due imprese. Nell’inchiesta, denominata ‘Cemento nero’, i lavoratori venivano reclutati in una piazza di Prato e portati nei cantieri, non solo in città ma anche a Firenze, Vaiano, Montemurlo, Quarrata, Pistoia e Agliana. Il lavoro non conosceva pause, ferie o orari: “Si lavora anche di notte se c’è bisogno”, diceva al telefono uno degli indagati.

 

I lavoratori venivano reclutati la mattina presto e portati in pullmino sui cantieri: dai negozi da ristrutturare alle case. Una parte dei manovali e muratori veniva assunta in nero, altri con contratti regolari.

 

Nel 2020, i due fratelli egiziani e altre nove persone vennero arrestati nell’ambito dell’inchiesta ‘Cemento nero’ condotta dal sostituto procuratore della Repubblica di Prato, Lorenzo Gestri. I due fratelli sono stati i primi a essere condannati in via definitiva per intermediazione illecita e sfruttamento della manodopera nel settore edile. La Cassazione ha respinto il ricorso presentato dal loro avvocato, confermando la condanna a 2 anni e 6 mesi di reclusione patteggiata con il tribunale di Prato. Questa è la prima sentenza della Corte di Cassazione relativa al caporalato nell’edilizia in Toscana.

 

Le indagini, condotte dalla Squadra Mobile di Firenze, si concentrarono su circa trenta cantieri nelle province di Prato, Firenze e Pistoia, con qualche estensione fuori dalla Toscana. In tutti i cantieri, gli investigatori trovarono caporali e sottocaporali che controllavano gli operai, prelevandoli all’alba dai punti di incontro e portandoli sul posto di lavoro, dove per una decina di euro l’ora, lavoravano come muratori e manovali finché ce n’era bisogno. Agli operai senza casa veniva garantito un alloggio, il cui costo veniva trattenuto dallo stipendio, così come i soldi per i contributi che non sempre venivano versati.

 

A mettere in moto le indagini, come già indicato, è stata la CGIL di Firenze, alla quale un operaio egiziano chiese aiuto. Il suo resoconto fu sufficiente per avviare l’inchiesta ‘Cemento nero’, che rimane una delle più importanti condotte dalla procura di Prato.

 

Il destino giudiziario degli imputati si è diversificato durante l’udienza preliminare: alcuni hanno scelto il rito ordinario, altri il rito abbreviato, mentre altri ancora hanno patteggiato. Il primo sigillo della Cassazione è arrivato e da quelle condanne non si torna indietro.

 

Dunque la vicenda ha avuto origine dalla denuncia di un lavoratore, F.F., che ha segnalato al Segretario generale della CGIL di Firenze di essere stato vittima di sfruttamento da parte dei fratelli egiziani operanti nel settore edile. L’indagine ha rivelato un sistema complesso di intermediazione illecita e sfruttamento, confermato da intercettazioni e testimonianze di numerosi lavoratori.

 

Fatti del caso e decisione della Corte

L’imprenditore calabrese è stato accusato di essere il capo e promotore di un’associazione per delinquere, impegnata nell’intermediazione illecita e nello sfruttamento dei lavoratori, molti dei quali irregolari e privi di contratto. Le attività illecite comprendevano l’impiego di lavoratori senza regolare permesso di soggiorno, false attestazioni di adempimento degli obblighi formativi e condizioni di lavoro degradanti.

 

Decisione della Corte:

  1. Inammissibilità del Ricorso: La Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dall’imputato, confermando la sentenza della Corte d’Appello di Firenze.
  2. Conferma della Condanna: La Corte ha ribadito che, per configurare il reato associativo, non è necessaria la consumazione dei reati fini, trattandosi di una fattispecie di pericolo.
  3. Condanna alle Spese: Il ricorrente è stato condannato al pagamento delle spese processuali, una somma di 3000 euro in favore della Cassa delle ammende e a rifondere le spese sostenute dalle parti civili BB e CC.

 

Precedenti giurisprudenziali citati

La sentenza ha fatto riferimento a diversi precedenti giurisprudenziali che hanno contribuito a delineare la struttura legale per i reati associativi e di sfruttamento lavorativo:

  1. Sez. 4, n. 49781 del 9/10/2019, Kuts: Questo precedente definisce gli indici di sfruttamento come condizioni di pregiudizio e soggezione rilevanti per il lavoratore (“pur dovendosi ribadire che la mera condizione di irregolarità amministrativa del cittadino extracomunitario nel territorio nazionale, accompagnata da situazione di disagio e di bisogno di accedere alla prestazione lavorativa, non può di per sé costituire elemento valevole da solo ad integrare il reato di cui all’art. 603 bis cod. pen. caratterizzato, al contrario, dallo sfruttamento del lavoratore, i cui indici di rilevazione attengono ad una condizione di eclatante pregiudizio e di rilevante soggezione del lavoratore, resa manifesta da profili contrattuali retributivi o da profili normativi del rapporto di lavoro, o da violazione delle norme in materia di sicurezza e di igiene sul lavoro, o da sottoposizione a umilianti o degradanti condizioni di lavoro e di alloggio”).
  2. Sez. 3, n. 40749 del 5/3/2015, Sabella: Stabilisce che la commissione dei reati fini non è necessaria per provare l’esistenza del reato associativo.
  3. Sez. 6, n. 36131 del 13/5/2014, Torchia: Definisce l’accordo criminoso nel concorso di persone come limitato alla commissione di reati specifici.
  4. Sez. 4, n. 45615 dell’11/11/2021, Mazzotta: Riafferma che in materia di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, ogni singolo lavoratore è protetto in modo indipendente e non come parte di un gruppo collettivo.

 

Conclusione

Questa sentenza della Corte di Cassazione sottolinea l’importanza di un’azione coordinata e stabile nella configurazione di un’associazione a delinquere. La decisione ribadisce l’autonomia del reato associativo rispetto ai reati fini e conferma che non è necessaria la consumazione dei reati specifici per configurare l’associazione.

 

La sentenza rappresenta un passo importante nella lotta contro lo sfruttamento lavorativo e l’intermediazione illecita, assicurando che le organizzazioni criminali non possano sfuggire alla giustizia semplicemente per la mancata consumazione dei reati pianificati.

Questa interpretazione consolida ulteriormente la giurisprudenza italiana, fornendo un forte deterrente contro le attività criminali organizzate nel settore del lavoro.

 

 

Rolando Dubini, penalista Foro di Milano, cassazionista

 

 

NB: Per il dettaglio della pronuncia della Corte di Cassazione si rimanda al testo integrale della sentenza inserita in Banca Dati.

 

 

 

Scarica la sentenza di riferimento:

Cassazione Sezione IV penale – Sentenza n. 24577 del 21 giugno 2024 – Associazione per delinquere finalizzata ad attuare un sistema illecito di reclutamento e impiego di lavoratori in condizioni di sfruttamento.

 

 

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