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Al primo posto c’è la promozione della salute e la prevenzione delle malattie: a partire dalle scuole per arrivare a tutti i luoghi di lavoro. “Perché è da qui che passa la possibilità di garantire un uso più efficiente ed equo delle risorse sanitarie, economiche e umane”.

Per ridurre le disuguaglianze sociosanitarie, tra i principali driver del dilagare delle malattie croniche nei Paesi occidentali, l’obiettivo della sanità pubblica deve essere innanzitutto questo.

Parola di Eurohealthnet (organizzazione senza scopo di lucro formata da oltre quaranta enti pubblici accademici e sanitari) e del Copenaghen institute for future studies, che in un rapporto di previsione sul futuro della sanità pubblica nel Vecchio continente hanno cercato di individuare le priorità per “raggiungere l’equità nella salute, tenendo conto anche dell’attuale contesto di transizione digitale ed ecologica”.

Il dossier – frutto di un lavoro composito portato avanti da 35 esperti europei: per l’Italia hanno partecipato Claudio Tortone ed Eleonora Tosco del Centro di documentazione per la promozione della salute (Dors) della Regione Piemonte – rappresenta una road-map degli obiettivi da raggiungere entro il 2035 per far fronte alle questioni più attuali del terzo millennio. Questioni di cui spesso si parla in relazione al contesto italiano, ma che in realtà accomunano tutti i Paesi europei.

Nuove vie di finanziamento per sostenere la sanità pubblica

Il confronto tra gli esperti ha portato a mettere nero su bianco quelle che sono considerate le sfide chiave per tutelare la salute pubblica europea nel prossimo decennio.

Del novero fanno parte il contrasto alle disuguaglianze (di reddito, istruzione, accesso all’assistenza sanitaria), il miglioramento delle condizioni di vita di una parte della popolazione, il contenimento (oltre che la gestione) delle malattie croniche e dei problemi di salute mentale. Priorità di ordine sanitario, legate a doppio filo a una inesorabile evoluzione sociale che chiama in causa altri determinanti: dalla transizione digitale ai cambiamenti demografici e climatici.

Tutte questioni di primo piano, che andranno affrontate quasi certamente con le risorse attuali. Dalle interviste condotte, è emerso che la maggior parte degli addetti ai lavori (77,4 per cento) “non si aspetta che da qui al 2035 i governi europei aumenteranno la spesa per la salute pubblica”.

Da qui la necessità di intercettare anche nuovi modelli di finanziamento, che secondo gli esperti non possono più escludere l’aumento delle tasse sui prodotti dannosi per la salute (zucchero, alcol) e l’ottenimento di fondi attraverso strade alternative: “Mettendo assieme gli obiettivi di salute, sociali o ambientali”.

Cambiamenti che, per andare in porto, non possono prescindere da “campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, dalla volontà politica e dalla collaborazione tra il settore pubblico e quello privato”.

Lotta alle disuguaglianze: una sfida (quasi) impossibile da vincere entro il 2035

Nonostante l’opinione diffusa secondo cui l’Unione europea “ha sviluppato maggiori e più complete competenze in materia di politica sanitaria”, gli esperti si sono dichiarati preoccupati dalla persistenza di un significativo divario tra le diverse fasce della popolazione.

Ecco spiegata la necessità di approntare “politiche e interventi mirati per affrontare i determinanti sociali della salute”: di cui fanno parte pure la povertà lavorativa (con il suo impatto fin dalla più tenera età), il cambiamento del mondo del lavoro (con il rischio di una società a due livelli), l’impatto del degrado ambientale e del cambiamento climatico, l’invecchiamento della popolazione e la migrazione.

Questioni da affrontare in maniera articolata fin da subito, come conferma il pensiero emerso da oltre il 70 per cento delle interviste. Il miglioramento della salute passa innanzitutto dal contrasto alle disuguaglianze: “Le strategie di prevenzione rivolte all’influenza dei fattori sociali, economici e ambientali sa­ranno l’obiettivo principale dell’impegno della sanità pubblica in tutti i Paesi europei”.

Al di là della presumibile crescita economica, nei prossimi dieci anni il Vecchio continente riuscirà a garantire un’economia del benessere su larga scala, dal Portogallo alla Romania?

Su questo punto, la comunità scientifica è risultata divisa quasi in due parti uguali. Se per il 54,8 per cento degli intervistati è molto probabile, il 45,2 per cento lo ritiene difficile. Le ragioni di tanto scetticismo risiedono nella “opposizione da parte di interessi radicati e nell’individualismo del mercato”, aggravati dalla “lentezza del cambiamento spesso osservata nelle economie” e da alcune tendenze politiche “come il populismo, l’antiglobalizzazione e la polarizzazione politica”.

Puntare su prevenzione e protezione della salute

In un simile contesto, con un’evidenza scientifica sempre più consolidata, gli esperti ritengono cruciale il rafforzamento di strategie di promozione della salute e di prevenzione.

Spiega Caroline Costongs, direttore di EuroHealthNet: “La pandemia di Covid-19 avrebbe dovuto insegnarci l’importanza di mantenere le persone in buona salute”. Così non è stato, evidentemente. “Se falliamo, le persone in situazioni vulnerabili saranno quelle che soffriranno di più. Una futura Unione europea della salute, in grado di investire di più nella promozione della salute e nella prevenzione delle malattie e di porre in primo piano l’equità sanitaria, può produrre un notevole ritorno positivo sugli investimenti per le persone e le economie”.

D’altra parte se 4 casi di cancro su 10 e quasi l’80 per cento delle malattie cardiovascolari potrebbero essere evitati migliorando gli stili di vita, “le strategie di prevenzione rivolte all’influenza dei fattori sociali, economici e ambientali sa­ranno l’obiettivo principale dell’impegno della sanità pubblica in tutti i Paesi europei”, è quanto si legge nel rapporto. Fondamentale è considerato il ruolo “dei contesti educativi e dei luoghi di lavoro”, dal momento che oltre l’ottanta per cento degli intervistati si aspetta che “le istituzioni pubbliche come le scuole svolgano un ruolo molto più attivo nel promuovere comportamenti sani rispetto a oggi”, intesi come “la progettazione di ambienti di vita sani e incentivi finanziari”.

Screening per le malattie croniche: una missione difficile

Detto ciò che c’è da fare, la maggioranza degli specialisti interpellati (67,8 per cento) ritiene che l’Europa entro il 2035 sarà in grado di “monitorare e regolamentare i de­terminanti commerciali della salute, come per esempio la vendita e il confezionamento di al­colici, la commercializzazione del junk food e dei cibi trasformati”.

Fiducia diffusa (61,3) anche nei confronti della possibilità di mettere a punto “approcci intersistemici alla salute mentale”, mentre maggiormente diffuse (in oltre un terzo degli intervistati) sono le perplessità riguardanti “l’introduzione di screening precoci a livello di popolazione per tutte le malattie non trasmissibili e per la salute mentale”.

Pure perché servirebbero “protocolli coordinati tra i sistemi sanitari dei diversi Paesi”: aspetto non semplice in considerazione della “eterogeneità delle infrastrutture e delle politiche sanitarie” che rendono difficile lo sviluppo di interventi standardizzati.

Proteggere l’ambiente per migliorare la salute di tutti

Tra le sei aree che condizioneranno l’evoluzione della sanità pubblica in Europa nel prossimo decennio, gli esperti hanno identificato anche la sostenibilità e la transizione ecologica.

L’approccio one health sarà sempre più protagonista del sistema sanitario (lo pensa oltre il 70 per cento degli esperti). Questo spiega perché sia opinione comune “la necessità di integrare la sostenibilità ambientale nelle politi­che e nelle pratiche di salute pubblica e nella ricerca”.

Prova ne è il fatto che quasi 9 intervistati su 10 ritiene che entro il 2035 “si avrà una legislazione e linee guida europee per la gestione dei rifiuti unitari” e che “ci sarà una legislazione europea per il monitoraggio e la valutazione dell’impronta ecologica delle attività del sistema sanitario” (molto probabile per l’80,7 per cento del panel).

Detto dell’impatto sulle politiche del Vecchio continente, diversi dubbi aleggiano invece rispetto alla possibilità che “la transizione ecologica determini miglioramenti significativi e misurabili nella salute della popolazione, del Pianeta e della funzionalità dei sistemi sanitari”.

I timori sono legati al peso “degli interessi economici delle grandi multinazionali, in conflitto con gli obiettivi ambientali e di salute”. A ciò occorre aggiungere l’incertezza circa “la reale volontà politica di completare una transizione ecologica che migliori la salute della popolazione”.

Per una sostenibilità a lungo termine, viene ritenuto necessario “mitigare il cambiamento climatico e adattarsi ai suoi effetti già evidenti” e “promuovere un’economia del benessere che integri il legame salute-ambiente con le economie”.

Più equità (anche grazie al digitale)

Il tema delle disuguaglianze è il filo rosso che lega timori e speranze degli esperti e che riemerge pure rispetto al tema della sanità digitale: considerata da un lato in grado di “migliorare l’erogazione dell’assistenza sanitaria e il coinvolgimento dei pazienti”, ma parimenti (per l’87,1 per cento degli intervistati) “di creare nuove disuguaglianze”.

Il rischio – concreto per chi ritiene che “la mancanza di accesso a internet continuerà a rappresentare un ostacolo significativo per l’accesso ai servizi sanitari nel 2035” – è quello di “dividere la popolazione in alfa­betizzata e analfabeta digitale”. Con quest’ultima meno portata a ricevere interventi sanitari efficaci.

La questione riguarda da vicino non soltanto i pazienti, ma anche il lavoro dei professionisti: tutt’altro che convinti che l’istituzione dello Spazio europeo dei dati sanitari (infrastruttura che punta a consentire l’accesso e lo scambio delle informazioni per migliorare l’assistenza sanitaria in tutti i Paesi dell’Unione) sarà completata nel prossimo decennio.

Tra le sfide principali emerse, ci sono “le variazioni nelle infrastrutture di raccolta dei dati tra Paese e Paese, la tutela della privacy dei dati e la sicurezza informatica e la difficoltà nel fornire una formazione dedicata all’alfabetizzazione digitale dei professionisti della sanità pubblica”.

Professionisti il cui lavoro, conclude il rapporto, “merita di essere valorizzato, al pari del loro benessere, per non incentivare in maniera ulteriore la fuga dagli ospedali pubblici e aggravare il problema della carenza di personale”. Sembra di essere alle prese con le questioni italiane, ma in fondo (tutta) l’Europa non sembra essere poi in condizioni migliori. Mal comune, mezzo gaudio?

 

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