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La cosa peggiore che possiamo fare in quest’epoca difficile è separare i problemi senza considerarne le profonde interdipendenze. Per questo, quando facciamo il punto sulla transizione ecologica non dobbiamo dimenticarci delle sue conseguenze profonde sul piano sociale e in particolare sui ceti più deboli. Partiamo dai dati del satellite Copernicus, che ci dicono che la temperatura media del pianeta da 13 mesi di fila segna nuovi record ed è costantemente al di sopra della soglia di 1,5 gradi Celsius rispetto al suo valore pre-industriale, il primo limite che l’umanità si era prefigurata di non superare. Perché si tratti di un superamento strutturale, il dato deve essere confermato per molti anni a venire. Ma già oggi conosciamo le conseguenze del riscaldamento globale (per ora le meno gravi possibile rispetto ai diversi scenari ipotizzati). Aumento di eventi climatici estremi, alterazione dei cicli tradizionali dei prodotti agricoli, migranti climatici che arrivano sulle nostre coste e nel nord Europa alla ricerca di un clima più ospitale e di un rapporto migliore tra popolazione e opportunità di benessere. Infine, le ondate di calore (si stimano 18mila morti in Italia nell’estate 2022) che colpiscono di più chi è in povertà energetica e ha meno risorse per ripararsi dal caldo. Ancora, continuiamo a essere esposti alle ondate inflattive generate dai prezzi delle fonti fossili (petrolio negli anni ’70, gas negli scorsi anni) finché non ridurremo la nostra dipendenza da esse. Tutte queste conseguenze sociali (inflazione e conseguente aumento dei poveri, ondate migratorie, eventi climatici estremi, ondate di calore) colpiscono e colpiranno maggiormente i ceti più deboli e gli scartati, anche solo per il fatto che hanno meno strumenti per difendersi.

La buona notizia è che la transizione è possibile e sta camminando tutto sommato velocemente. Anche con le tecnologie attuali abbiamo quanto ci basta per raggiungere l’obiettivo stabilito dall’agenzia mondiale delle fonti rinnovabili (Irena) che ci consentirebbe di restare sotto il grado e mezzo entro il 2050, ovvero la riduzione della quota di energia totale consumata, prodotta dalle fonti fossili dal 63 al 12%, il passaggio delle fonti rinnovabili dal 22 al 51% dell’energia totale consumata, e al 91% dell’energia elettrica (che è soltanto una parte dell’energia totale). Ovvero sarà possibile chiudere il cerchio anche con una limitata produzione residua da fonti fossili finché non saranno praticabili una di due strade alternative: chiudere il cerchio con il nucleare o arrivare vicini al 100% di rinnovabili in caso di significativo progresso tecnologico sul fronte delle batterie o degli accumuli. Nel frattempo la crescita spedita della quota di energia prodotta da rinnovabili è la cosa più importante che dobbiamo fare.

Il dato che dovrebbe incoraggiarci di più è la crescita esponenziale della nuova capacità di produzione di energia da rinnovabili. Sempre Irena ci ricorda che nel 2005 solo il 27% dei nuovi impianti di produzione nel mondo erano da fonti rinnovabili mentre lo scorso anno siamo arrivati all’87%. Tradotto in parole semplici questo significa che tutto il mondo sta rapidamente sostituendo le vecchie con le nuove fonti di energia ed è impegnato nella decarbonizzazione. Anche uno degli argomenti fatti apposta per scoraggiare i nostri sforzi (“e allora la Cina?”) sta ormai venendo meno. Gli ultimi dati ufficiali dell’Agenzia Internazionale per l’Energia ci dicono che la Cina raggiungerà i suoi obiettivi di decarbonizzazione del 2030 quest’anno, ovvero con sei anni di anticipo. Tra il marzo 2023 e il marzo 2024, con un’accelerazione impressionante, la Cina ha installato più energia solare di quanto ha fatto tutto il resto del mondo.

La finanza è fondamentale per vincere questa sfida. La crescita delle obbligazioni sociali, verdi e ad impatto (fino ad 1,4 trilioni di dollari nel mondo) e l’esperienza dell’incontro con gli investitori internazionali dimostra come la generatività (l’impatto ambientale e sociale) non è un’astrazione filosofica ma un gusto richiesto anche sui mercati finanziari assieme a rendimento e protezione dal rischio. Il governo italiano per questo motivo da un po’ di anni emette una quota di titoli pubblici sotto forma di titoli verdi (green Btp) impegnandosi con i sottoscrittori ad usare le somme raccolte per investimenti che ci fanno fare passi avanti nella transizione ecologica.

Se vogliamo essere competitivi nell’attrarre risorse in questa direzione dobbiamo avere progetti ad alto impatto, dove un euro di spesa pubblica investita ha effetti maggiori possibili in termini di riduzione di CO2 e anche di creazione di posti di lavoro. Le poste più promettenti da questo punto di vista sono proprio l’installazione di nuova capacità di produzione di energia da rinnovabili, gli incentivi per il progresso tecnologico in accumuli e batterie e il programma Industry 5.0 dove le nostre imprese sono incentivate a sostituire beni capitali in dotazione con quelli alla frontiera della transizione digitale ed ecologica. Particolarmente prezioso sarebbe un credito fiscale a meccanismi di finanziamento di comunità energetiche da parte di imprese private che scelgono questa strada per i loro obiettivi di compensazione e per raggiungere l’obiettivo di emissioni nette zero già discusso su queste colonne.

La transizione si può fare, si sta già facendo ma imprese, istituzioni, opinione pubblica e partiti politici devono concentrarsi sulle direzioni di progresso indicate superando le tentazioni di assecondare paura del nuovo e disperazione di non poter arrivare alla meta.



 

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