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Autore immagine: Canva.com

La Cassazione precisa i criteri di calcolo e dichiara illegittimo l’anatocismo applicato dalla banca, che lo aveva riportato nell’estratto di conto corrente.

Con il contratto di apertura di credito, detto anche fido bancario, la banca ti mette a disposizione una determinata somma aggiuntiva sul conto corrente, che puoi utilizzare entro il limite concesso.

Ma come calcolare gli interessi dovuti per questa apertura di credito bancario? Le somme rese disponibili al correntista hanno un costo: innanzitutto, c’è da pagare all’istituto di credito concedente una commissione, in misura proporzionale all’ammontare del finanziamento ed alla sua durata, che è dovuta anche se il fido non viene concretamente utilizzato. Ma sullo scoperto di conto sono dovuti anche gli interessi debitori, conteggiati secondo quanto previsto dal contratto di apertura di credito.

Proprio qui, nascono spesso divergenze interpretative tra i clienti e gli istituti di credito, quando questi ultimi imputano i versamenti eseguiti dal correntista per ripristinare la provvista innanzitutto alla copertura degli interessi maturati, anche quando il passivo rientra nei limiti dell’affidamento consentito.

Questo criterio è stato ora giudicato illegittimo dalla Corte di Cassazione che, con una nuova ordinanza, ha affermato che in questi casi gli interessi non sono dovuti; con l’importante conseguenza che il correntista può agire per chiederne la restituzione, ove fossero stati calcolati e inseriti nell’estratto conto periodico.

L’apertura di credito in conto corrente (o fido bancario)

Con il contratto di apertura di credito in conto corrente, comunemente detto fido bancario, la banca mette a disposizione del correntista una somma di denaro, concedendogli la facoltà di utilizzarla. Questo consente al cliente di poter disporre di una liquidità aggiuntiva rispetto a quella che avrebbe sul saldo di conto corrente alimentato dalle sue sole disponibilità.

Così l’affidatario (si chiama così colui che riceve le somme appunto “affidate” dalla banca) può spenderle come se fossero sue, nell’arco di tempo concesso: potrà effettuare prelievi o bonifici, emettere assegni, trasferirle ad altri. Dunque, l’apertura di credito realizza un vero e proprio finanziamento, sia pure circoscritto entro i limiti quantitativi e temporali previsti nel contratto.

Lo scoperto di conto corrente

A un certo punto, però, le somme dovranno essere restituite e con gli interessi maturati, che sono dovuti anche se la banca tollera lo sconfinamento per un periodo ulteriore rispetto a quello stabilito (per le varie conseguenze e le ipotesi che possono accadere nella pratica, leggi “Se il conto corrente va in rosso che succede?“).

Infatti, l’utilizzo del fido può comportare uno scoperto di conto corrente se si eccedono i limiti di utilizzo consentiti o il periodo concesso per ripianare l’ammontare affidato. Talvolta, la banca autorizza il correntista, specie se è un cliente “importante” per il volume d’affari e lo ritiene corretto ed affidabile nei suoi comportamenti, a ripianare il debito entro un periodo di tempo più lungo.

Negli altri casi, invece, l’istituto di credito sollecita il cliente non appena è maturata la scadenza e gli intima di rientrare immediatamente dallo scoperto accumulato; inoltre, opera il recesso dal fido in maniera da non concederglielo più.

Così il correntista viene messo improvvisamente alle strette e sarà costretto a restituire le somme dovute; se non riesce a mettersi d’accordo in via bonaria con la banca operando un saldo e stralcio saranno pressoché inevitabili le azioni legali e giudiziarie intraprese dall’istituto bancario per il recupero del suo credito, anche forzoso, cioè mediante l’esecuzione forzata con pignoramento e vendita dei beni del debitore.

Apertura di credito: l’imputazione degli interessi

Se invece il passivo accumulato dal correntista rientra nei limiti del fido, la banca non può imputare gli interessi nel frattempo maturati, perché le rimesse eseguite dal correntista hanno una mera «funzione ripristinatoria» della provvista inizialmente concessa con l’apertura di credito: lo ha stabilito la Corte di Cassazione

[1] escludendo che in questi casi possa applicarsi la norma di legge [2] secondo cui il pagamento fatto in conto capitale ed interessi deve essere imputato prima agli interessi.

La Suprema Corte giunge a questa conclusione riallacciandosi ad una nota pronuncia delle Sezioni Unite [3] in materia di interessi anatocistici e prescrizione che distingue i versamenti «solutori» effettuati dal debitore da quelli «ripristinatori».

In pratica, ciò significa che la rimessa eseguita dal cliente sul conto corrente per ripianare il fido non può ritenersi un pagamento «solutorio» – come tale soggetto a prescrizione decennale – perché gli interessi non sono ancora immediatamente esigibili, in quanto la soglia del fido non è stata varcata oltre il limite. Si tratta, invece, di una semplice rimessa che serve a ripianare l’importo a debito per mantenerlo entro il limite contrattuale previsto per quell’affidamento bancario.

Quando la richiesta di pagamento degli interessi è illegittima

Cosa accade invece se sono proprio gli interessi addebitati dalla banca sugli estratti conto a far

superare la soglia del passivo concessa? Anche in questo caso la Corte di Cassazione ha ritenuto che il pagamento fatto ha una funzione solutoria del debito soltanto per la parte costituita dalla differenza tra lo scoperto maturato ed il limite del fido; per la restante parte, invece, permane la funzione ripristinatoria.

Il Collegio osserva che «un versamento eseguito dal cliente su un conto il cui passivo non abbia superato il limite dell’affidamento concesso dalla banca con l’apertura di credito non ha né lo scopo né l’effetto di soddisfare la pretesa della banca di vedersi restituite le somme date a mutuo (credito che, in quel momento, non sarebbe scaduto né esigibile), bensì quello di riespandere la misura dell’affidamento utilizzabile nuovamente in futuro dal correntista. Non è dunque un pagamento, perché non soddisfa il creditore, ma amplia (o ripristina) la facoltà d’indebitamento del correntista; e la circostanza che in quel momento il saldo passivo del conto sia influenzato da interessi illegittimamente

fin lì computati si traduce in un’indebita limitazione di tale facoltà di maggior indebitamento, ma non nel pagamento anticipato di interessi».

Perciò – sottolineano gli Ermellini – «al fine di verificare se un versamento abbia avuto natura solutoria o ripristinatoria, occorre previamente eliminare tutti gli addebiti indebitamente effettuati dall’istituto di credito e conseguentemente rideterminare il saldo reale del conto». Nel caso deciso, era stata espletata durante la fase del giudizio di merito una consulenza tecnica d’ufficio dalla quale erano emersi oltre 357mila euro derivanti dall’applicazione illegittima di interessi anatocistici e di commissioni di massimo scoperto. Queste somme ora dovranno essere restituite al correntista.

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