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Corte costituzionale – sentenza n.162 del 24-09-2024

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1. Il fatto


Il Tribunale ordinario di Oristano, sezione unica penale, era chiamato a decidere, in sede di giudizio abbreviato, sulla responsabilità penale di una persona sottoposta alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, per plurime violazioni dell’art. 75, comma 1, cod. antimafia, per aver trasgredito, in cinque distinte occasioni tra il dicembre 2019 e il marzo 2020, la prescrizione di non allontanarsi dalla propria abitazione nelle ore notturne.
L’esecuzione del provvedimento era tuttavia rimasta sin dall’inizio sospesa, essendo l’interessato detenuto per esecuzione pena in forza di ordine di esecuzione di data antecedente e, quindi la sorveglianza speciale era divenuta esecutiva soltanto quando l’interessato era stato scarcerato, il che avveniva nel mese di aprile del 2019. Per un valido supporto per professionisti consigliamo: Codice penale e di procedura penale e norme complementari -Edizione 2024. Aggiornato alla Riforma Nordio e al decreto Svuota Carceri

2. La questione: sospetta incostituzionalità dell’art. 14, co. 2-ter, codice antimafia


A fronte della situazione summenzionata, il Tribunale summenzionato sollevava, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 13, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2-ter, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui prevede che, in caso di sospensione dell’esecuzione della sorveglianza speciale durante il tempo in cui l’interessato è sottoposto a detenzione per esecuzione di pena, il tribunale verifica la persistenza della sua pericolosità sociale soltanto ove lo stato di detenzione si sia protratto per almeno due anni.
In particolare, per quanto riguarda la rilevanza di siffatte questioni, per il giudice rimettente, qualora le stesse fossero accolte, avrebbe dovuto «trovare retroattivamente applicazione la disciplina che attualmente impone (analogamente a quanto previsto per le misure di sicurezza) la rivalutazione ex officio da parte del Tribunale […] della pericolosità sociale del destinatario della sorveglianza speciale di P.S. preliminarmente all’esecuzione della misura disposta».
Nel caso concreto, dunque, non essendo stata effettuata tale rivalutazione d’ufficio, secondo quanto trapela in codesta ordinanza, «la sospensione dell’esecuzione della misura di prevenzione non potrebbe dirsi cessata in maniera automatica per il solo cessare dell’esecuzione della pena detentiva – mediante mera notifica del provvedimento applicativo originario –, ma si dovrebbe ritenere persistente fino a quando il giudice competente non proceda a verificare nuovamente la pericolosità sociale della persona sottoposta alla misura [:] solo il rispetto di tale iter costituirebbe condizione di efficacia della misura di prevenzione». Ciò tanto più in un caso come quello oggetto del procedimento a quo, in cui «non solo la misura di prevenzione era stata disposta per la durata di un solo anno (già interamente decorso nel momento in cui la misura ha trovato differita esecuzione), ma [P.L.] S. aveva altresì beneficiato – nel corso della carcerazione medio tempore subita – della liberazione anticipata e di permessi premio con provvedimenti attestanti la partecipazione all’opera rieducativa e la correttezza della condotta intramuraria».
Conseguentemente, per il giudice a quo, in caso di accoglimento delle questioni non avrebbe potuto affermarsi la responsabilità penale dell’imputato per le violazioni contestategli, sulla base dei principi fissati dalla giurisprudenza di legittimità in ordine alla impossibilità di ritenere configurato il delitto in parola laddove non sia stata compiuta la prescritta rivalutazione della pericolosità sociale dopo la sospensione dell’esecuzione della sorveglianza speciale per effetto dello stato di detenzione per esecuzione di pena dell’interessato (si citava all’uopo: Corte di Cassazione, Sezioni unite penali, sentenza 21 giugno-13 novembre 2018, n. 51407).
Ciò posto, per quanto invece inerisce la non manifesta infondatezza, il rimettente rammentava anzitutto come la disposizione censurata sia stata introdotta in seguito alla sentenza n. 291 del 2013 del medesimo Giudice delle leggi, che aveva ritenuto incompatibile con la Costituzione una presunzione di persistenza della pericolosità sociale del destinatario della misura di prevenzione, laddove quest’ultima fosse stata sospesa durante la sua detenzione per esecuzione di pena, tenuto conto altresì del fatto che i principi espressi in quella pronuncia sarebbero stati confermati dalla recente giurisprudenza di legittimità, che tenderebbe a una «sempre più evidente valorizzazione del requisito dell’attualità della pericolosità sociale al momento dell’applicazione di misure di prevenzione restrittive della libertà personale, giungendosi per tale via al progressivo superamento di presunzioni – sia pure relative – di pericolosità sociale dei soggetti che ne risultino destinatari» (Corte di Cassazione, Sezione sesta penale, sentenza 7-9 luglio 2020, n. 20577; Sezione seconda penale, sentenza 14 gennaio-3 marzo 2020, n. 8541), tanto più se si considera che tale giurisprudenza trarrebbe d’altronde fondamento da una pronuncia delle Sezioni unite penali, che – in linea con la menzionata sentenza n. 291 del 2013 della Consulta – avrebbe sancito il superamento della presunzione di pericolosità anche nei confronti di soggetti indiziati di appartenere alle associazioni di tipo mafioso (Corte di Cassazione, Sezioni unite penali, sentenza 30 novembre 2017-4 gennaio 2018, n. 111).
Orbene, è ben vero, proseguiva il rimettente nel suo ragionamento decisorio, che tali pronunce della giurisprudenza di legittimità si collocano sul diverso piano dell’attualità della pericolosità sociale del destinatario della misura nel momento della sua adozione, tuttavia esse confermerebbero il principio secondo cui la «pericolosità sociale rappresenti, e debba necessariamente rappresentare, il fulcro della prevenzione personale», le misure in questione risultando inserite nel sistema costituzionale «solo se finalisticamente orientate a contrastare una condizione di pericolosità attualmente esistente».
In altri termini, osservava ancora il giudice a quo, «la pericolosità – nel sistema della prevenzione personale – non è solo presupposto applicativo delle misure, ma anche fondamento della loro perduranza, specie nelle ipotesi di sospensione o differimento dell’esecuzione delle medesime». Ciò anche in omaggio ai principi stabiliti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in materia, che esigerebbero una «necessaria verifica della permanenza della pericolosità del destinatario di una misura di prevenzione affinché possano dirsi garantite le condizioni di compatibilità della disciplina per le stesse dettata dal diritto interno con la libertà di movimento sancita dall’art. 2, Prot. 4 CEDU» (è citata Corte EDU, grande camera, sentenza 6 aprile 2000, Labita contro Italia).
Più in particolare, sempre per il giudice rimettente, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3, primo comma, Cost., in relazione al tertium comparationis rappresentato dall’art. 679 del codice di procedura penale, in ragione dell’«ingiustificato trattamento differenziato fra soggetti che si trovano in posizioni analoghe», e segnatamente tra persone destinatarie di misure di sicurezza e di misure di prevenzione, atteso che tali misure avrebbero analoga ratio, essendo «parimenti orientate a prevenire la commissione di reati da parte di soggetti valutati come pericolosi e a favorirne il recupero verso l’ordinato vivere sociale» visto che, mentre, in materia di misure di sicurezza, occorrerebbe procedere a una «doppia valutazione della pericolosità (al momento della deliberazione con la sentenza emessa all’esito del giudizio di cognizione e, successivamente, al momento dell’esecuzione in concreto della misura)», la disposizione censurata prevederebbe un «lasso temporale rigido» di due anni, durante il quale l’esecuzione della misura di prevenzione è sospesa per esecuzione di pena, «al di sotto del quale non è possibile verificare se la pericolosità sociale del prevenuto sia o meno in concreto rimasta inalterata (con conseguente mantenimento di una presunzione iuris tantum di permanenza della pericolosità sociale)».
Sempre questa disposizione censurata, inoltre, differenzierebbe irragionevolmente il trattamento delle ipotesi di detenzione per espiazione di pena protrattasi per almeno due anni, rispetto alle quali invece si richiede una rivalutazione della pericolosità prodromica all’effettiva applicazione della misura, ove l’irragionevolezza del trattamento differenziato tra le due situazioni si desumerebbe dal fatto che la meccanica esclusione della rivalutazione ex officio prevista per il caso di sospensione inferiore ai due anni «non consente di tener conto di quelle ipotesi in cui la detenzione, pur breve, abbia attenuato o addirittura escluso la concreta pericolosità del soggetto destinatario della misura di prevenzione». Inoltre, sempre per siffatto organo giudicante, tale rigida soglia risulterebbe «iniqua anche sotto il profilo della mancata considerazione della durata della misura di prevenzione originariamente disposta così precludendo in radice la rivalutazione anche nelle ipotesi in cui – come quella in esame – il differimento dell’esecuzione della misura della sorveglianza speciale di P.S. si sia protratto oltre la complessiva durata della misura disposta con il provvedimento genetico».
Precisato ciò, per il giudice rimettente, la disposizione censurata si porrebbe poi in contrasto pure con l’art. 13, primo comma, Cost. dato che sarebbe soltanto «la necessità di contenere la concreta e attuale pericolosità sociale a rappresentare il fulcro del sistema delle misure di prevenzione personale e a costituire la ragione delle limitazioni alla libertà personale che con esse vengono imposte».
Il giudice a quo osserva per di più che «le misure in questione in tanto possono considerarsi legittime, in quanto rispettino i requisiti cui l’art. 13 Cost. subordina la liceità di ogni restrizione alla libertà personale, tra i quali rientra la necessaria proporzionalità della misura rispetto ai legittimi obiettivi di prevenzione dei reati (proporzionalità che è requisito di sistema nell’ordinamento costituzionale italiano, in relazione a ogni atto dell’autorità suscettibile di incidere sui diritti fondamentali dell’individuo)» (citandosi a tal proposito la sentenza della Consulta n. 24 del 2019) poiché la disposizione censurata comporterebbe «una violazione del requisito della proporzionalità del provvedimento limitativo rispetto alla finalità special-preventiva presidiata […], nella parte in cui pretende di far discendere l’esecuzione di misure di prevenzione personali e delle prescrizioni fortemente limitative ad esse correlate dal solo provvedimento deliberativo della misura e in assenza di una rivalutazione d’ufficio della pericolosità sociale che ne deve costituire il fondamento, non solo applicativo, ma esecutivo e legittimarne la perduranza in ipotesi di sospensione o differimento della sua esecuzione».
Ebbene, per il giudice a quo, tale contrasto non sarebbe sanato dalla «possibilità attualmente prevista dalla norma censurata […] che sia l’iniziativa del prevenuto a sollecitare l’attivazione di un procedimento teso alla rivalutazione dell’attualità del presupposto», poiché «alla base di ogni provvedimento limitativo della libertà personale […] deve essere prevista in automatico la rivalutazione dell’attualità dei presupposti legittimanti l’applicazione della misura».
Infine, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 27, terzo comma, Cost. giacché «l’introduzione di una soglia temporale rigida […] al di sotto della quale non è mai necessario procedere alla rivalutazione della pericolosità sociale per applicare la misura di prevenzione personale equivale necessariamente a sostenere che in tale arco temporale l’espiazione della pena non possa aver sortito alcun effetto in termini di risocializzazione del condannato», e dunque «equivarrebbe ad introdurre una presunzione di inidoneità delle pene detentive che abbiano durata inferiore ai due anni a tendere alla funzione rieducativa».

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3. La soluzione adottata dalla Corte costituzionale: l’illegittimità


I giudici di legittimità costituzionale ritenevano come, nel merito, le questioni fossero fondate, in riferimento a tutti i parametri evocati.
Nel dettaglio, il Giudice delle leggi osservava prima di tutto che, nella materia attigua delle misure di sicurezza, come più estesamente rammentato dalla sentenza n. 291 del 2013 (punto 5 del Considerato in diritto), una risalente giurisprudenza della stessa Consulta ha giudicato incompatibili con il canone della ragionevolezza fondato sull’art. 3 Cost. varie presunzioni assolute di pericolosità sociale poste alla base di automatismi nell’applicazione di tali misure (sentenze n. 249 del 1983, n. 139 del 1982 e n. 1 del 1971).
Orbene, in conformità ai principi sottesi a tale giurisprudenza, la legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), la cosiddetta “legge Gozzini”, ha abrogato l’art. 204 del codice penale, che prevedeva una disposizione generale in materia di presunzione ex lege della pericolosità sociale ai fini dell’applicazione delle misure di sicurezza, e contestualmente ha introdotto il principio secondo cui «tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa» (art. 31, secondo comma, della legge n. 663 del 1986), restando però aperto il quesito se tale accertamento dovesse essere compiuto soltanto nel momento dell’applicazione della misura di sicurezza da parte del giudice della cognizione, ovvero (anche) nel momento dell’esecuzione della misura stessa, nelle ipotesi di esecuzione differita (ad esempio, allorché la misura di sicurezza dovesse essere eseguita dopo l’espiazione della pena).
Ebbene, codesto quesito fu sciolto dalla sentenza n. 1102 del 1988 della Corte costituzionale, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 219, terzo comma, cod. pen., «nella parte in cui, per i casi ivi previsti, subordina il provvedimento di ricovero in una casa di cura e di custodia al previo accertamento della pericolosità sociale, derivante dalla seminfermità di mente, soltanto nel momento in cui la misura di sicurezza viene disposta e non anche nel momento della sua esecuzione», e ciò, appunto, sulla base della ritenuta insostenibilità, al metro dell’art. 3 Cost., della presunzione di persistenza della pericolosità già accertata al momento dell’applicazione della misura.
Ciò posto, a fronte di siffatto pronunciamento, il percorso si completò con il nuovo codice di procedura penale, che all’art. 679 prevede che «[q]uando una misura di sicurezza diversa dalla confisca è stata […] ordinata con sentenza, o deve essere ordinata successivamente, il magistrato di sorveglianza, su richiesta del pubblico ministero o di ufficio, accerta se l’interessato è persona socialmente pericolosa».
Conseguentemente – come sottolineato sempre dalla Consulta nella sentenza n. 291 del 2013 – «salvi i casi in cui la misura di sicurezza sia applicata direttamente dal magistrato di sorveglianza – la valutazione di pericolosità sociale dovrà essere effettuata due volte: prima dal giudice della cognizione, al fine di verificarne la sussistenza al momento della pronuncia della sentenza; poi dal magistrato di sorveglianza, quando la misura già disposta deve avere concretamente inizio, in modo tale da garantire l’attualità della pericolosità del soggetto colpito dalle restrizioni della libertà personale connesse alla misura stessa».
Dunque, a fronte di questa rassegna di ordine normativo e giurisprudenziale, i giudici di legittimità costituzionale notavano, nella pronuncia qui in commento, come i medesimi principi siano stati applicati dalla Consulta alla materia delle misure di prevenzione, accomunate alle misure di sicurezza dalla finalità di «prevenire la commissione di reati da parte di soggetti socialmente pericolosi e [di] favorirne il recupero all’ordinato vivere civile (sentenza n. 69 del 1975, ordinanza n. 124 del 2004), al punto da poter essere considerate come “due species di un unico genus” (sentenze n. 419 del 1994 e n. 177 del 1980)» (sentenza n. 291 del 2013, punto 6 del Considerato in diritto).
In particolare, in tale pronuncia, si dava atto del diritto vivente allora esistente (cristallizzato in particolare da Corte di Cassazione, Sezioni unite penali, sentenza 25 marzo-14 luglio 1993, n. 6), secondo cui il giudice della prevenzione era tenuto ad accertare la pericolosità sociale soltanto nel momento dell’adozione della misura mentre, nell’ipotesi in cui l’esecuzione della misura dovesse essere sospesa in conseguenza dello stato di detenzione dell’interessato, non sarebbe stato indispensabile un nuovo accertamento della pericolosità al cessare della detenzione, anche al fine di evitare il rischio, paventato dalle Sezioni unite, di «pericolose dilazioni» nell’esecuzione della misura, una volta che l’interessato riacquistasse la libertà.
Ebbene, tale diritto vivente è stato ritenuto, in sede di giustizia costituzionale, incompatibile con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.
Conseguentemente, l’art. 15 cod. antimafia venne dichiarato costituzionalmente illegittimo «nella parte in cui non prevede che, nel caso in cui l’esecuzione di una misura di prevenzione personale resti sospesa a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena della persona ad essa sottoposta, l’organo che ha adottato il provvedimento di applicazione debba valutare, anche d’ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell’interessato nel momento dell’esecuzione della misura».
Orbene, nel motivare tale decisione, la sentenza n. 291 del 2013 ha osservato quanto segue: «il decorso di un lungo lasso di tempo incrementa la possibilità che intervengano modifiche nell’atteggiamento del soggetto nei confronti dei valori della convivenza civile: ma a maggior ragione ciò vale quando si discuta di persona che, durante tale lasso temporale, è sottoposta ad un trattamento specificamente volto alla sua risocializzazione. Se è vero, in effetti, che non può darsi per scontato a priori l’esito positivo di detto trattamento, per quanto lungo esso sia, meno ancora può giustificarsi, sul fronte opposto, una presunzione – sia pure solo iuris tantum – di persistenza della pericolosità malgrado il trattamento, che equivale alla negazione della sua stessa funzione: presunzione che risulta, per converso, sostanzialmente insita in un assetto che attribuisca alla verifica della pericolosità operata in fase applicativa una efficacia sine die, salvo che non intervenga una sua vittoriosa contestazione da parte dell’interessato. Ciò, quantunque la pericolosità sociale debba risultare attuale nel momento in cui la misura viene eseguita, giacché, in caso contrario, le limitazioni della libertà personale nelle quali la misura stessa si sostanzia rimarrebbero carenti di ogni giustificazione» (punto 6 del Considerato in diritto).
In tal modo, anche rispetto alle misure di prevenzione, il Giudice delle leggi ha imposto una doppia verifica di pericolosità: nel momento dell’adozione del provvedimento, e nel momento dell’effettiva esecuzione di esso, nella specifica ipotesi in cui tra essi si sia verificato uno iato temporale per effetto di una sospensione dovuta alla detenzione per espiazione di pena dell’interessato, tenuto conto altresì del fatto che la pronuncia appena menzionata ha precisato, nella parte conclusiva della motivazione, che sarebbe stata «rimessa all’applicazione giudiziale l’individuazione delle ipotesi nelle quali la reiterazione della verifica della pericolosità sociale potrà essere ragionevolmente omessa, a fronte della brevità del periodo di differimento dell’esecuzione della misura di prevenzione (si pensi al caso limite in cui la persona alla quale la misura è stata applicata si trovi a dover scontare solo pochi giorni di pena detentiva)» (punto 7 del Considerato in diritto).
Ciò posto, dal canto suo, nel dichiarato intento di contribuire alla «certezza del diritto», a fronte delle difficoltà emerse nella prassi applicativa riguardo alla più precisa individuazione del periodo di sospensione che impone una reiterazione dell’accertamento della pericolosità, la relazione finale della Commissione ministeriale incaricata di elaborare una proposta di interventi in materia di criminalità organizzata, istituita con decreto del Ministro della giustizia del 10 giugno 2013, propose di fissare con legge la durata di tale periodo, stabilendo la necessità della verifica d’ufficio sulla persistente pericolosità sociale solo qualora la detenzione si fosse protratta per almeno due anni, e tale proposta confluì nella legge 17 ottobre 2017, n. 161 (Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, al codice penale e alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale e altre disposizioni. Delega al Governo per la tutela del lavoro nelle aziende sequestrate e confiscate), al cui art. 4, comma 1, si deve l’introduzione nel codice antimafia del comma 2-ter dell’art. 14, in questa sede censurato.
Pur tuttavia, per la Consulta, la disposizione in parola reintroduce, di fatto, una presunzione di persistente pericolosità laddove la sospensione connessa allo stato di detenzione dell’interessato sia inferiore a due anni e, quindi, una tale soluzione non appare a in sintonia con la ratio della sentenza n. 291 del 2013, e con la giurisprudenza che si è poc’anzi richiamata in materia di misure di sicurezza.
Difatti, per la Corte costituzionale, la presunzione in parola viola, anzitutto, l’art. 3 Cost., risultando per un verso intrinsecamente irragionevole, e per altro verso foriera di un’irragionevole disparità di trattamento rispetto alla parallela disciplina oggi applicabile alle misure di sicurezza in forza dell’art. 679, comma 1, cod. proc. pen..
Peraltro, sempre per la Corte costituzionale, la disposizione censurata contrasta anche con l’art. 13 Cost., essendo stato già rilevato, in sede di giustizia costituzionale, che l’esecuzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza comporta una restrizione della libertà personale sancita dall’art. 13 Cost., posto che le prescrizioni inerenti a tale misura – anche quando non sia disposto l’obbligo di soggiorno in un determinato comune – implicano comunque, ai sensi dell’art. 8 cod. antimafia, la sottoposizione a una incisiva serie di obblighi, tra cui quelli di fissare la propria dimora, di non allontanarsene senza preventivo avviso all’autorità di pubblica sicurezza, di non uscire di casa più presto e di non rincasare più tardi di una data ora (sentenza n. 24 del 2019, punto 9.7.3. del Considerato in diritto; analogamente, con riguardo all’istituto dell’ammonizione, antesignano di quello in esame, sentenza n. 11 del 1956).
Ora, visto che l’art. 13 Cost. subordina la legittimità costituzionale di eventuali restrizioni di tale libertà non solo alla puntuale definizione per legge dei presupposti della restrizione, ma anche al loro accertamento caso per caso da parte di un giudice; accertamento che, per esplicita previsione della norma costituzionale, deve qui intervenire in via preventiva, o comunque non oltre novantasei ore dall’avvenuta restrizione, la disciplina censurata prevede, invece, un meccanismo di tutela giurisdizionale successivo e soltanto eventuale (perché attivabile soltanto su istanza di parte) su un requisito centrale – quello della pericolosità dell’interessato – la cui effettiva e persistente sussistenza al momento dell’esecuzione della misura deve essere considerata, a sua volta, condizione della sua proporzionalità rispetto ai legittimi obiettivi di prevenzione dei reati, che la misura di prevenzione persegue; si tratta quindi di una proporzionalità che, come la Consulta ha recentemente rammentato proprio a proposito delle misure di prevenzione, costituisce «requisito di sistema nell’ordinamento costituzionale italiano, in relazione a ogni atto dell’autorità suscettibile di incidere sui diritti fondamentali dell’individuo» (sentenza n. 24 del 2019, punto 9.7.3. del Considerato in diritto; sulla necessaria proporzionalità di ogni misura dalla quale discendano compressioni dei diritti fondamentali della persona, di recente, anche sentenza n. 46 del 2024, punto 3.1. del Considerato in diritto).
D’altra parte, la subordinazione della rivalutazione della pericolosità alla richiesta dell’interessato fa ricadere su quest’ultimo gli eventuali ritardi nella decisione del tribunale, restando nel frattempo eseguibile la misura nei suoi confronti, con conseguente indebita limitazione della sua libertà personale al metro dell’art. 13 Cost.
Infine, per il Giudice delle leggi, la disciplina impugnata contrasta anche con il principio della necessaria finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. dato che, se è vero che il successo di un trattamento rieducativo non è mai scontato, la presunzione legislativa in esame muove dal non condivisibile presupposto che un trattamento penitenziario in ipotesi protrattosi fino a due anni sia radicalmente inidoneo a modificare l’attitudine antisociale di chi vi è sottoposto, se ritenuto corretto, un simile presupposto varrebbe a determinare di per sé l’incompatibilità con l’art. 27, terzo comma, Cost. di tutte le pene detentive di breve durata (sulla non sacrificabilità della funzione rieducativa della pena in favore di ogni altra, pur legittima, funzione della pena, sentenza n. 149 del 2018, punto 7 del Considerato in diritto, e ivi ulteriori riferimenti).
Al contrario, per il Giudice delle leggi, pur nella consapevolezza dei molti ostacoli di ordine fattuale che si frappongono alla realizzazione dell’obiettivo costituzionalmente imposto dall’art. 27, terzo comma, Cost., l’ordinamento non può invece che muovere dalla premessa della idoneità anche delle pene detentive di durata non superiore ai due anni a svolgere una funzione rieducativa nei confronti del condannato il che impone, per ovvie ragioni di coerenza rispetto a quella premessa, di lasciare aperta la porta a una verifica caso per caso se questo risultato sia stato raggiunto, o se invece persista, nonostante l’avvenuta espiazione della pena, una situazione di pericolosità sociale dell’interessato, che deve ancora essere contrastata mediante l’effettiva esecuzione della misura precedentemente disposta.
In effetti, la reductio ad legitimitatem della disposizione censurata esige soltanto la rimozione dell’inciso «se esso si è protratto per almeno due anni,» e, in conseguenza di tale ablazione, dopo la cessazione dello stato di detenzione, il Tribunale sarà tenuto a verificare, anche d’ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell’interessato, con le modalità prescritte dalla disposizione in esame mentre, sino a tale rivalutazione, la misura di prevenzione in precedenza disposta dovrà considerarsi ancora sospesa, e le prescrizioni con essa imposte non potranno avere effetto nei confronti dell’interessato.
Resta quindi ferma per il Tribunale la possibilità, già prefigurata nella sentenza n. 291 del 2013, di procedere alla rivalutazione della pericolosità dell’interessato in un momento immediatamente antecedente la scarcerazione del destinatario della misura di sicurezza, ovvero di omettere la rivalutazione quando la misura sia stata adottata per la prima volta nell’imminenza di tale scarcerazione, tenendo conto dell’evoluzione della personalità dell’interessato durante l’esecuzione della pena.
La Corte costituzionale, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2-ter, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), limitatamente alle parole «se esso si è protratto per almeno due anni,».



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