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“Quando Palermo disse ‘no’ all’hotspot” #finsubito prestito immediato


Nota – Questo comunicato è stato pubblicato integralmente come contributo esterno. Questo contenuto non è pertanto un articolo prodotto dalla redazione di PalermoToday

Nel maggio 2018 Palermo disse “no” alla costruzione sul proprio territorio di un hotspot da 400 posti. L’operazione aveva avuto il via attraverso una convenzione tra il Ministero degli Interni (Angelino Alfano del Governo Renzi, lo stesso che poco dopo proporrà hotspot galleggianti “così nessun migrante potrà andare via”) e Invitalia come stazione appaltante. Anche il Governo Regionale diede il proprio assenso. La mega struttura sarebbe dovuta sorgere allo Zen, nei pressi del velodromo come luogo di primo soccorso e accoglienza per i migranti in un’area confiscata e contrassegnata come verde storico. Il costo previsto era di 7 milioni di euro. A portare la questione agli occhi dell’opinione pubblica fu il gruppo consiliare di Sinistra Comune, Lista Civica con forte caratterizzazione politica, sorta per volontà di Rifondazione Comunista, Sinistra Italiana, dei Comitati in difesa dei Beni Comuni, e la galassia delle realtà associative operanti sulla carne viva della città.

La battaglia fu condotta tatticamente su questioni tecniche che poi risultarono molto utili alla vittoria. Per noi di Sinistra Comune, che avevamo concorso attivamente a dare ispirazione a quella che era la visione del governo della città in un’ottica che andasse oltre la mera amministrazione ordinaria, rappresentava l’affermazione di principi universali e di convivenza globale. Libertà di movimento, riconoscimento dello status di migrante in ragione di emergenze umanitarie, sanitarie e climatiche, anche se non in presenza di conflitti armati o persecuzione politiche. A ogni persona dev’essere riconosciuto il diritto di mettersi in salvo per sè e per i propri cari. Quanto accaduto a Palermo è la riprova che stare dentro processi di governo locale con posizioni anche radicali può condizionare l’impianto programmatico, la visione del governo de territori e anche agire positivamente su scelte locali che investono principi globali. Il dibattito che oggi ruota intorno alla costruzione dell’hotspot in Albania, a noi di Rifondazione Comunista pare arrestarsi su questioni puramente contabili.

Il governo Meloni e il PD dibattono sui costi della costruzione e gestione della struttura, sui costi del trasbordo su nave militare, e in futuro probabilmente sulle convenzioni con servizi paramilitari che dovranno intercettare già in mare le imbarcazioni per trasferire gli equipaggi direttamente in Albania. Il modello Albania è certamente apprezzato dalle destre europee o non decisamente ostracizzato in dalle forze moderate per le seguenti ragioni: allontana i confini europei, fa stazionare esseri umani in attesa che questi possano essere ritenuti forza lavoro utile da impiegare nel proprio sistema produttivo, nasconde agli occhi dell’opinione pubblica un sintomo che potrebbe portare ad additare il sistema capitalistico globale come causa delle diseguaglianze planetarie e causa dei processi migratori. Aspetto quest’ultimo eluso anche dai partiti europei a tradizione socialista che hanno visto nella loro maturazione, il campo capitalista come unico terreno di elaborazione politica e di governo, fallendo. Il pericolo derivante dal sottrarsi al dibattito attorno ai fallimenti del capitalismo deve allarmare poiché condurrà alla percezione di inutilità della grande intelligenza collettiva che nella maggiori agenzie di formazione o economiche globali ancora indipendenti, studia, comprende ed elabora.

Intelligenza che è già in fase di sostituzione nel sistema informativo generalista e la cui formazione è affidata a macchiette televisive, opinionisti dalla dubbia capacità e giornalisti a gettone, che non farebbero altro che amplificare il Draghi pensiero nel momento in cui sostiene che “se vogliamo tenere il condizionatore acceso nelle nostre case occorre fare la guerra” ovvero che il benessere di un pezzo di mondo debba passare attraverso l’oppressione di un altro pezzo di mondo. Fenomeno questo che ha bisognoo di demolire le qualità umane nella percezione dell’altro e che porta a essere testimoni indifferenti anche di genocidi. Ripubblico un mio pezzo del settembre dopo aver sputo della morte di Loujin Ahmed Nasif bambina di quattro anni morta di sete su un barcone alla deriva nel Mediterraneo a cui nessuno dette soccorso nonostante i ripetuti appelli rilanciati dal centralino dei migranti Alarm Phone. Abbiamo sete! La visione sul Mediterraneo da un punto di vista eurocentrico è alla base della tragedia contemporanea, e la visione oggi dominante è quella della finanza e dei mercati che hanno tradito quella fondante della cooperazione dei popoli nata come contraltare alla guerra tra le Nazioni che devastò l’Europa nel secolo scorso. Il fallimento della visione capitalistica e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo che resiste solo dove innalza muri e cancellate isolando da sé le contraddizioni che produce, deve ritrovare come contrappunto la resistenza e la cooperazione dei popoli per un rinnovato rapporto tra uomo/natura/artificio e progresso/diritti. Se vogliamo affrontare alla radice il fenomeno delle migrazioni occorre ribadire che il progresso e il perseguimento di una migliore qualità della vita non può prescindere dalla conseguenze sul clima e sui rapporti tra comunità.

Occorre mettere in discussione il modello economico lineare basato su estrazione, trasformazione, consumo e rifiuto poiché manifesta oggi tutta la sua insostenibilità. La corsa all’accaparramento di materie prime e il controllo dei luoghi funzionali alla loro trasformazione (luoghi di estrazione o distretti industriali), o trasferibilità (gasdotti, rotte di navigazione ecc) determinano attriti tra comunità e nazioni generando conflitti a cui difficilmente si riesce a porre argine. Il sistema che regola la trasformazione e il consumo produce esso stesso inquinamento, riscaldamento globale e cambiamenti climatici che a catena generano disastri ambientali, impoverimento dei territori, disuguaglianze sociali a scala planetaria e migrazioni. Oggi è indispensabile aprire una discussione sull’Africa post coloniale. La nostra terra già al centro di un mare di mezzo e sunto delle contraddizioni e dei pregi dei popoli affacciati al mediterraneo è certamente quel pezzo d’Europa dove si può animare un nuovo pensiero. Il primo passo di questo percorso è l’abbattimento dei decreti sicurezza e la rescissione di ogni accordo con la delinquenza organizzata libica. Facciamo della Sicilia quel pezzo di Mediterraneo dove il mondo si rigenera.

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Ramon La Torre, segretario cittadino Rifondazione Comunista Palermo



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