Nessun’altra città al mondo se lo sarebbe potuto permettere: erigere una scultura fallica alta dodici metri in una piazza-simbolo, proprio di fronte al Municipio. Nella gigantesca esplosione di creatività sarcastica che la «statua» ha provocato, un festival del divertimento popolare che già di per sé è parte integrante della performance, la palma del vincitore va a mio parere al gioco di parole di Paola Concia su X: «Da ‘Tu sì ‘na cosa grande’ a ‘Tu sì ‘na cosa glande’ è un attimo». D’altra parte è un’opera di Pesce, e a Napoli potevamo aspettarcelo. Mi hanno raccontato che l’altra sera in piazza c’era una signora che non ci voleva credere: «Ma veramente Pesce si chiama l’autore?». Ed è stato solo per un estremo ravvedimento degli organizzatori, che all’ultimo minuto hanno aggiunto una giovane musicista alle 69 previste dall’autore per l’inaugurazione, se non è stata aggravata la già evidente simbologia sessuale del tutto con un ulteriore riferimento alla Smorfia.
Solo Napoli se lo poteva permettere per due ragioni. La prima è che siamo nel solco di una precisa e consolidata tradizione. «Quando ho visto esposto in Piazza Municipio il ‘pisellone di Pulcinella’ sono stato piacevolmente sorpreso – mi ha scritto un napoletano 84enne, Raffaele Pisani – ho pensato che, nonostante settembre sia passato già da un po’, a Napoli si continua a festeggiare Piedigrotta. Ma voi ve lo immaginate quale successo avrebbe riscosso il carro con l’estrosa opera dello scultore Gaetano Pesce transitando per via Caracciolo fino ad arrivare a Piazza del Plebiscito, dove a furor di popolo avrebbe conquistato il primo premio?».
È quella stessa tradizione che, non a caso, ha segnato negli ultimi decenni con un filo rosso l’azione dei poteri pubblici a Napoli. Da Bassolino con le stazioni d’artista della metropolitana (come dimenticare la «vulva» di Anish Kapoor a Monte Sant’Angelo?) fino a de Magistris con i più goffi e caserecci tentativi compiuti con N’Albero e il Corno, è ormai prassi dei sindaci cercare in un uso spettacolare dello spazio urbano la quintessenza della originalità partenopea, il suo gusto per l’esibizione, la sua idea di agorà. L’arte contemporanea, con la speciale capacità di farsi «arte pubblica», è stata e resta lo strumento più adatto a questa politica.
Il secondo motivo per cui solo noi ce lo potevamo permettere è che il tutto è avvenuto per caso. Non è stata Napoli a scegliere una simbologia fallica per l’istallazione, ma è stata l’installazione a farsi fallica per Napoli. Tutti, infatti, dalla curatrice agli organizzatori e credo anche ai realizzatori materiali del bozzetto di Pesce, ammettono di essere rimasti sorpresi dall’effetto finale. Nessuno si aspettava ciò che ne è venuto fuori. Il che potrebbe farci fantasticare: forse il Dio dei napoletani ha voluto regalarci un sorriso, uno scandalo, un’attrazione, uno nuovo landmark urbano per accogliere il visitatore? E sì, perché questo «coso» sembra davvero una benedizione divina. È diventato celebre in tutta Italia senza neanche bisogno di essere dato alle fiamme come la Venere degli stracci di Pistoletto, alla quale solo il rogo consegnò uno stato iconico, al punto da dover essere replicata.
Pare che poche ore prima del completamento dei lavori dell’opera, i curatori avessero addirittura tenuto una riunione per studiare una strategia di comunicazione: temevano che non avrebbe retto il confronto mediatico con la Venere. Non sapevano che cosa li aspettava. Oggi il Pulcinella di Pesce è l’operazione di marketing artistico più riuscita della storia (forse solo la passerella di Christo sul Lago di Iseo regge il confronto). Ho letto che alcuni consiglieri comunali di opposizione hanno lamentato uno sperpero di denaro pubblico, trecentomila euro a loro parere buttati. Ma scherzate? Avete idea del ritorno economico, dell’investimento realizzato, perfino a sua insaputa, dall’amministrazione comunale? Per il turismo del selfie il fallo di Piazza Municipio se la batte con il Colosseo e Piazza San Marco. Promozione del brand Napoli più a buon mercato non poteva esserci.
Anche dal punto di vista simbolico, poi, l’operazione mi pare perfettamente (e, ripeto, inconsapevolmente) riuscita. Concordo con Silvana Annicchiarico, curatrice dell’evento, che sul nostro giornale ha segnalato un aspetto non da poco: «È un inno alla vitalità in un momento arido, di stringente calo demografico in Italia. Gaetano Pesce ne sarebbe stato contento». D’altra parte, come lei stessa aggiunge, «ognuno vede quello che vuole nell’arte». E infatti in quel Pulcinella il fallo si vede se lo si vuole vedere. Dipende da che parte si guarda l’opera. Dal di dietro è decisamente fallica. Ma sul davanti no. Sono cose già accadute nella fruizione pubblica dell’arte anche in altre epoche, per dir così più austere: perfino la Fontana del Nettuno a Bologna, opera in bronzo del Cinquecento, se osservata da una certa angolazione regala l’illusione ottica di una straboccante vitalità virile del dio raffigurato. I bolognesi ne ridono da secoli.
C’è un ultimo aspetto che non è stato finora sollevato, e che prudentemente inserisco qui alla fine dell’articolo nella speranza che non lo noti nessuno: con la pessima fama che insegue oggi l’immaginario della virilità maschile, vuoi vedere che la statua di Pesce finisca con l’essere anche un provvidenziale sberleffo al «politicamente corretto»?
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