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Pensioni, i tribunali contro l’INPS e cambiano le regole: si va in pensione prima, ma è vero? #finsubito prestito immediato


Nel giro di pochi giorni sono arrivate due importanti sentenze che ribaltano alcuni concetti fondamentali sulle pensioni anticipate, aprendo la possibilità ai lavoratori di andare in pensione prima. Perché diciamo “in teoria”? Perché si tratta di sentenze dei tribunali che hanno dato ragione a singoli contribuenti a cui l’INPS aveva rifiutato la pensione, ma non modificano la normativa. Certo, ne danno un’interpretazione diversa, ma ciò non significa che le regole cambino da subito. Si tratta di casi che creano dei precedenti, a cui i contribuenti possono fare riferimento nei loro ricorsi futuri, ma non costituiscono un vero cambiamento delle regole.

Queste decisioni mettono in discussione l’interpretazione delle normative da parte dell’INPS riguardo alle misure di pensionamento. Tuttavia, ogni caso è a sé e bisogna vedere come il Tribunale deciderà di volta in volta.

Pensioni: i tribunali contro l’INPS, si va in pensione prima? È davvero così?

Partiamo dal caso più datato, che riguarda l’Anticipo Pensionistico Sociale, ovvero l’Ape sociale. Questa misura consente a chi ha almeno 63,5 anni di età e 30 anni di contributi di andare in pensione prima, ma solo se invalido, caregiver o disoccupato. Per i lavori gravosi, invece, sono necessari almeno 36 anni di contributi.

Ogni categoria ha requisiti aggiuntivi: gli invalidi devono avere almeno il 74% di invalidità civile; i caregiver devono convivere con il parente invalido da almeno sei mesi; i lavoratori devono aver svolto un’attività gravosa per almeno 7 degli ultimi 10 anni o per 6 degli ultimi 7 anni. Infine, i disoccupati devono aver terminato di percepire interamente la Naspi spettante. Proprio sui disoccupati si è pronunciata la Corte di Cassazione con la sentenza numero 24950 del 17 settembre 2024, che ha suscitato molte discussioni, poiché scollega il diritto alla pensione a 63,5 anni dalla Naspi.

L’Ape sociale anche senza Naspi: la novità della Cassazione

Fino a oggi, per ottenere l’Ape sociale, un disoccupato doveva prima completare il periodo di indennizzo della Naspi.

In parole povere, prima di poter accedere all’Ape sociale, bisognava aver terminato di percepire l’indennità di disoccupazione. Questo requisito è stato considerato fondamentale da esperti, tecnici e dallo stesso INPS. Ora, la Corte di Cassazione ha ribaltato tutto. Tra i requisiti per accedere all’Ape sociale c’è lo stato di disoccupazione, ma non è più necessario aver percepito l’indennità di disoccupazione.

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Secondo la Cassazione, l’unico requisito è che, se l’indennità di disoccupazione è stata richiesta e percepita, questa debba essere stata completata. In altre parole, non si può percepire la Naspi e l’Ape sociale contemporaneamente, né si dovrebbe poter rinunciare alla Naspi in favore dell’Ape. Tuttavia, chi non ha mai richiesto la Naspi, pur avendone diritto, può comunque accedere all’Ape sociale se ha perso il lavoro involontariamente.

Cosa cambia dopo la sentenza: l’interpretazione dell’INPS è sbagliata?

Questo è un caso piuttosto particolare, poiché non sono molti i disoccupati che “dimenticano” o scelgono di non presentare domanda di disoccupazione. Tuttavia, può capitare che chi teme di non ottenere il rinnovo dell’Ape sociale preferisca non usufruire della Naspi, temendo un’interruzione dell’anticipo pensionistico.

La Cassazione ha confermato il diritto all’Ape sociale per una lavoratrice disoccupata, anche se non ha percepito l’indennità di disoccupazione, a condizione che fosse ancora senza lavoro. Secondo la sentenza, l’INPS avrebbe quindi interpretato male le norme relative all’Ape sociale.

Anche i 35 anni di contributi richiesti dall’INPS per le pensioni anticipate non sono necessari?

Un’altra sentenza importante riguarda il requisito dei 35 anni di contributi effettivi per accedere alle pensioni anticipate ordinarie. Si tratta della sentenza della Cassazione numero 24916, sempre del 17 settembre 2024. In questo caso, si parla della pensione anticipata con 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne.

La misura prevede che almeno 35 di questi anni debbano essere effettivi, cioè da lavoro, escludendo i contributi figurativi da Naspi o malattia.

Secondo la Cassazione, però, ciò che conta è che, essendo molti gli anni di contributi richiesti per la pensione anticipata e in base a quanto stabilito dal Decreto Legge numero 201 del 2011 (la riforma Fornero), il concetto fondamentale è la contribuzione utile per raggiungere i 42 anni e 10 mesi o i 41 anni e 10 mesi richiesti. In pratica, valgono tutti i contributi, anche quelli figurativi, senza distinzioni. L’INPS, secondo i giudici, interpretava male anche questa regola quando respingeva le domande di pensione anticipata.

Cosa fare ora: precedenti e ricorsi

Al momento, queste sentenze creano dei precedenti, come detto in precedenza. In attesa che i legislatori intervengano per correggere le normative o che l’INPS emetta una circolare che chiarisca la situazione, chi si vede rifiutata la domanda di pensione può fare ricorso, richiamando queste sentenze come precedenti.



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