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Quante idee confuse su tagli e coperture #finsubito prestito immediato


Le misure economiche più significative della prossima legge di bilancio riguardano il rinnovo del taglio al cuneo fiscale e contributivo e l’accorpamento delle prime due aliquote Irpef. In particolare, il governo sta cercando di rendere permanente la riduzione del 7% dei contributi previdenziali e assicurativi per i redditi fino a 25 mila euro e del 6% per quelli fino a 35 mila euro, mentre intende anche ridurre l’aliquota IRPEF dal 25 al 23 per cento sui redditi compresi tra i 15 ai 28 mila euro. Le coperture necessarie devono ancora essere trovate e il governo sembra avere, su questo, idee confuse. Non basteranno né i contributi volontari delle banche, né i condoni fiscali e neppure un aumento inaspettato delle entrate fiscali registrato quest’anno che potrebbe non ripetersi.

La Banca d’Italia ha avvertito che le previsioni sulla crescita del PIL dei prossimi anni potrebbe essere inferiore alle stime del governo. Per fortuna, la richiesta di Salvini di demolire la riforma Fornero è fallita ingloriosamente. Le opzioni di uscita anticipata dal lavoro comportano riduzioni sostanziali delle prestazioni e, quindi, rimangono impopolari e puramente simboliche. Poiché il patto di stabilità ci obbliga a contenere la dinamica della spesa pubblica e a ridurre il debito nei prossimi anni, la riforma fiscale dovrà essere finanziata con un aumento permanente delle imposte o una riduzione delle spese. Stando alle dichiarazioni dei partiti di maggioranza, la prima opzione è difficilmente percorribile. Un aumento delle imposte personali vanificherebbe l’obiettivo della flat tax e le entrate che deriverebbero da una riduzione delle spese fiscali (cioè gli sgravi dall’imponibile IRPEF per i più vari capitoli di spesa) sono marginali o teoriche. Dunque, le riforme fiscali del governo, se saranno permanenti, produrranno una riduzione della spesa pubblica. Ciò è già in parte avvenuto tramite la sostanziale demolizione del reddito di cittadinanza. Con tutte le riserve che si possono avere su questa misura, non avevamo certo bisogno di una riduzione della spesa pubblica per far fronte ai rischi di povertà e di disoccupazione.

La Banca d’Italia ha avvertito che i tagli ai contributi previdenziali e assicurativi mettono a rischio la stabilità del nostro sistema di sicurezza sociale. Non è un problema nuovo. Il bilancio dell’INPS del 2024 si chiuderà con una perdita di oltre nove miliardi che, nonostante la fine della pandemia, è in crescita di 2,5 miliardi rispetto l’anno scorso. Se aggiungiamo questo dato alle misure del governo, dobbiamo concludere che la spesa per le pensioni è sempre meno finanziata dai contributi versati dai lavoratori attivi e sempre di più dalla fiscalità generale. Ciò tradisce lo spirito della riforma previdenziale promulgata dal governo Dini nel ’95, cioè il passaggio al sistema contributivo, che fu fatta dopo un faticoso compromesso con le parti sociali e che doveva, nel lungo periodo, assicurare l’equilibrio dei conti pubblici e scoraggiare l’uscita prematura dal lavoro. Un sistema di sicurezza sociale con una forte componente redistributiva e assistenziale, finanziato con le tasse di tutti i cittadini, è più simile al modello anglosassone, e non sarebbe un anatema. Il problema è che la nostra spesa sociale è già molto sbilanciata verso i rischi legati alla vecchiaia e a sfavore di tutte quelle altre componenti di spesa legate all’occupazione, all’istruzione e alla malattia. Facciamo un po’ di conti. Oggi l’Italia spende per la vecchiaia (pensioni) tra il 16 e il 17% del Pil, il valore più elevato tra tutti i paesi avanzati. Questo dato è destinato ad aumentare nei prossimi anni a causa dell’aumento della quota di anziani sulla popolazione attiva, che passerà dal 39,4% del 2020 al 58,7% del 2045. L’equilibrio del sistema previdenziale richiede un aumento significativo dell’età di pensionamento dei nostri giovani, sui quali già grava un’aliquota contributiva del 33%, a fronte di prestazioni pensionistiche che saranno certamente inferiori a quelle dei loro nonni. Ma ciò non sarà sufficiente se si riduce la base contributiva del sistema.

Ci possiamo permettere di correggere questo squilibrio con un aumento della spesa sociale complessiva? Secondo i dati OCSE, questa spesa è, in Italia, al 30% del Pil, in vetta alle classifiche europee, e solo 0,5 punti percentuali inferiore alla Francia, che detiene il record del mondo. L’unica strada per fare fronte alla progressiva erosione della quota di prestazioni previdenziali finanziate con i contributi dei lavoratori attivi è contenere le altre voci di spesa, ma sarebbe un suicidio. La spesa dell’Italia per la sanità, la famiglia e la disoccupazione è sistematicamente inferiore ai paesi europei a noi più simili e che hanno una spesa complessiva paragonabile. Noi spendiamo per queste tre voci il 6,4, l’1,4 e lo 0,9% del Pil, rispettivamente. Francia e Germania spendono tra i due e i tre punti percentuali in più per tutte queste tre voci. La spesa della Francia per la sanità è il 9, 6% del Pil, cifra che, se fosse raggiunta in Italia, varrebbe 60 miliardi da aggiungere ai 120 circa che abbiamo oggi. Anche l’opzione di attingere al reparto istruzione sarebbe un grave errore. L’università riceve dallo stato un misero 0,62% del Pil, contro l’1,17 della Francia e l’1,11 della Germania.

La Commissione Europea concede all’Italia più tempo per rientrare dal deficit e dal debito eccessivo. Un orizzonte che può arrivare fino a 7 anni. Nello stesso tempo, per rafforzare le nostre potenzialità di crescita, raccomanda di ridurre il cuneo fiscale sul lavoro, razionalizzare le spese fiscali e aggiornare i valori catastali degli immobili. Il governo sembra intenzionato a raccogliere solo la riduzione del cuneo fiscale, ma, per non derogare dall’obiettivo di raggiungere un improbabile appiattimento delle aliquote d’imposta, ha scelto una scorciatoia che potrebbe rivelarsi controproducente, un’ulteriore erosione della base contributiva del sistema previdenziale. Se ciò determinerà un altro sbilanciamento della spesa complessiva a favore delle prestazioni pensionistiche, non saremmo in grado di impegnare l’azione pubblica sulle materie che più servono ad aumentare la crescita del Paese: l’istruzione e la sicurezza dei cittadini, l’occupazione e la sanità.

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