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Troppo presto. La polemica aperta da Antonio Tajani nei confronti della Banca centrale europea si è chiusa troppo rapidamente. Il vicepremier ha messo nel mirino l’atteggiamento eccessivamente prudente della Bce sul taglio dei tassi d’interesse: appena lo 0,25% a settembre. Praticamente i banchieri centrali si sono limitati a fare un compitino inutile. Certo, il sistema economico prenderà appena appena un po’ di respiro, ma è come curare una malattia grave con la tachipirina: non serve assolutamente a nulla. Eppure la stessa Bce, mentre con la mano destra ha deciso di usare un pannicello caldo, con la sinistra ha ammesso che le prospettive dell’economia nell’area euro andranno incontro ad un ulteriore peggioramento. L’istituto guidato da Christine Lagarde, infatti, ha tagliato le stime di crescita dell’Eurozona per ogni anno fino al 2026: cosa ancora deve succedere per riaprire i rubinetti del credito? Inoltre, poiché le decisioni di politica monetaria impattano sull’economia reale con diversi mesi di ritardo, a nessuno dei cervelloni di Francoforte è venuto in mente che sia proprio la loro eccessiva cautela ad accentuare il deterioramento delle prospettive economiche? La Bce sta giocando di rimessa. Così facendo, però, continua a penalizzare l’Italia. I margini di manovra per l’anno prossimo sono strettissimi e il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, lo ha ribadito anche ieri in Consiglio dei ministri, illustrando le cifre definitive del Piano strutturale di Bilancio. Anche se alla fine dell’anno la crescita del Pil arriverà all’1%, il debito continuerà a salire: dal 134,8% nel 2024 al 137,1% nel 2025, fino al 138,3% nel 2026. Il punto è che la strategia di cauto allentamento dei tassi imboccata da madame Lagarde non impatta allo stesso modo in tutte le Nazioni. Roma vede la sua inflazione da diverso tempo decisamente al di sotto di quel 2% che è il target fissato dalla Bce. Ne consegue che l’entità della restrizione monetaria per noi è superiore alla media dell’Eurozona. Cosa vuol dire? Che l’effetto depressivo prodotto sull’economia reale in Italia è maggiore che nel resto d’Europa. Questa manovra a tenaglia di fatto lega le mani all’Esecutivo. Lo dimostra il fatto che per aumentare il Fondo sanitario nazionale, il ministro dell’Economia ha appena chiesto alle Regioni l’incremento del contributo alla finanza pubblica: un’operazione praticamente a somma zero per non colpire i conti. Siamo giunti al punto che lo Stato, non riuscendo a mettere in piedi uno straccio di revisione della spesa pubblica degno di tal nome, sta facendo la questua chiedendo col cappello in mano a banche, assicurazioni e società energetiche un «contributo volontario» per finanziare la Manovra. Ecco perché ha fatto bene Tajani a polemizzare con la Bce, affermando la necessità di un taglio dei tassi più deciso e rompendo così il tabù di una politica muta rispetto alle decisioni delle autorità monetarie. L’indipendenza di queste ultime è fuori discussione, ovviamente, ma lo è altrettanto il fatto che nessuno può permettersi il lusso di agire come se fosse fuori dalla realtà. E la realtà dice che in 9 mesi i tassi sono stati tagliati di appena lo 0,5%: è evidente che serve molto più coraggio per alleggerire i costi di accesso al credito per le imprese e rafforzare la crescita. In questo momento il problema principale che abbiamo in Italia non è centellinare gli zero virgola, ma rilanciare gli investimenti privati scoraggiati da condizioni ancora troppo onerose. D’altra parte, se Lagarde non vuole ascoltare il Governo italiano, almeno stia a sentire Mario Draghi, del quale pure dice di avere condiviso – a parole – il Rapporto sulla competitività. In quel documento l’ex presidente della Bce spiega chiaro che per uscire dalla stagnazione servono investimenti per 800 miliardi l’anno e debito comune europeo. Non è una tachipirina. È una cura da cavallo. Esattamente quello che ci serve. 



 

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